“Ciao Ousmane”, nel campo dei braccianti africani che raccolgono l’oro verde

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Entrare per la prima volta nel campo “Ciao Ousmane” è un’emozione che ti resta dentro. Quando varchi la soglia del cancello ti si apre davanti il panorama di centinaia di tende disposte su un grande piazzale. Sono più di 700, ordinate e rafforzate con teli di plastica per ripararle dalla pioggia. Circondano uno stabile che si trova al centro.

Nel mezzo si trovano casette di fortuna, costruite con pezzi di legno recuperati tra le campagne e coperte da teloni. Sono adattate a ristoranti dove si cucina cous cous, carne alle brace, frittelle calde o vengono usate come piccoli bazar. Su un lato del campo c’è uno spazio condiviso, dove, quando c’è corrente, si passano le serate a guardare la televisione. Nel retro invece, c’è uno spazio dedicato alla preghiera, con i tappeti rivolti verso la Mecca, e i fuochi per cucinare.

Il campo “Ciao Ousmane” è a pochi chilometri dal Comune di Campobello di Mazara, in mezzo a terreni incolti. Si trova all’interno di un ex oleificio confiscato alla mafia che oggi è arrivato ad ospitare fino a 1200 persone, tutti uomini.

Una vera comunità dove il vociare di sottofondo è un mix di diverse lingue. I ragazzi che vivono qui sono senegalesi, sudanesi, ghanesi, magrebini e marocchini. Sono migranti stagionali, ragazzi che vivono in Italia da diversi anni e che durante il periodo della raccolta delle olive si spostano nelle campagne trapanesi in cerca di lavoro. Questa è la zona dell'”oro verde” della Valle del Belice, si raccolgono qualità da mensa e da spremitura.

La storia di questi migranti stagionali ha radici lontane ma è emersa solo nel 2013 quando un ragazzo senegalese è rimasto ucciso dall’esplosione di una bombola mentre usava un fornelletto da campo. Si chiamava Ousmane, oggi il campo è dedicato a lui. E’ stato in quel momento che si è accesa l’attenzione sulle condizioni disumane in cui vivevano. Avevano occupato i palazzi abbandonati di Erba Bianca, a pochi metri da qui, non avevano acqua, luce o servizi igienici. Cucinavano su lastre di eternit senza conoscerne il pericolo.

I primi a reagire alla situazione furono i ragazzi del Collettivo LibertAria: iniziarono a portare coperte, generi alimentari, scarpe da lavoro, guanti. Diedero inizio ad una rete di solidarietà con altre associazioni del territorio, tra le quali Libera. Da qui l’idea di utilizzare un bene confiscato alla mafia per dare uno spazio dignitoso ai tanti migranti.

Nel settembre 2014 hanno in mano le chiavi dell’ex oleificio. Iniziano i lavori di sistemazione del campo, tra cui l’istallazione di docce e servizi igienici grazie a 5 mila euro messi a disposizione dai commissari prefettizi del comune di Campobello di Mazara che nel frattempo era stato sciolto per infiltrazione mafiosa.

Giuseppe, Federica, Angelo, Salvatore sono alcuni dei volontari del campo, si muovono tra le tende salutando i ragazzi. Per loro questo posto è diventato casa, trascorrono qui intere giornate, settimane, andando incontro alle esigenze quotidiane di chi ci vive. La corrente elettrica che salta, il campo che si allaga per i temporali, una macchina che si rompe. Sono un punto di riferimento per chi abita nel campo.

Spiegano che hanno fatto tanto ma che è solo l’inizio. Hanno bisogno l’aiuto di associazioni e volontari ma sopratutto l’intervento concreto delle istituzioni perchè, in futuro, la situazione sia diversa. Per i migranti stagionali di Campobello di Mazara ma anche per quelli che raccolgono i pomodori a Caserta e a Foggia, le arance a Rosarno, i ciliegini a Pachino. Garantire loro una casa durante la stagione lavorativa, un contratto regolare, come prevede la legge.

La visita al campo continua davanti ad un piatto di cous cous con verdure e pollo cucinati da Abib. E’ contento di far assaggiare i suoi piatti abbondanti, è tunisino, vive a Milano da trent’anni con moglie e figlia, coltiva il sogno di aprire una pasticceria tutta sua.

E’ ora di cena, il campo è illuminato da poca luce, si sente l’odore delle carne sulla brace e lo sfrigolio dell’olio in pentola. C’è un brulicare di persone. Il loro sguardo ti accoglie con curiosità ma basta un sorriso per stemperare la tensione ed essere ricambiati con bocche che s’allargano e mostrano denti bianchissimi. Non è usuale infatti, che le persone si avvicinino al campo.

Al contrario, il paese ha mostrato più volte un atteggiamento di chiusura, chiedendo che il campo fosse spostato. Una paura infondata: non è mai stato registrato nessun caso di violenza e all’interno della comunità vigono regole non scritte ma rispettate da tutti.

Prima di andare via diamo un’ ultima occhiata al campo. Ci guardiamo intorno, varchiamo il cancello e torniamo alle macchine con la sensazione di aver imparato tanto da queste persone che non si arrendono mai, nemmeno davanti alle difficoltà. Dagli occhi di Aikon, senegalese di 25 anni che dall’età di 20 vive lontano dalla famiglia, che ad ottobre raccoglie le olive e in primavera lavora in un bar. Dalle spalle larghe di Paul, un uomo alto due metri che si intimidisce a parlare davanti alla gente, e che fa capire la fatica del lavoro nei campi. Dalla diplomazia di Diop che insieme ai volontari cerca di mediare con i migranti per migliorare le condizioni del campo. Dalla forza dei gesti di Salvatore, Angelo, Federica, Leo, Melchiorre e Peppe che dimostrano cosa vuol dire fare solidarietà, con il sorriso sulle labbra e la tenacia di non arrendersi mai.

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