Il Ritorno

Joyce racconta il suo ritorno a casa dopo un anno negli Stati Uniti 

Una storia senza una fine sarebbe come un libro a cui manca un capitolo, deludente e pieno di suspense. Il mio anno, la mia storia, non potevo lasciarla così, senza fine, senza il suo capitolo. Nonostante faccia male ripensare a tutti quegli addii, rivivere nella mia testa il mio arrivo per l’ennesima volta mi riempie di gioia. E’ difficile spiegare come mi sento ora, o quello che ho provato quando ho varcato quella porta che mi divideva dalle persone che amo di più al mondo, ma proverò a fare del mio meglio.

La stessa domanda mi è stata rivolta almeno una trentina di volte, ‘allora come è stato quest’anno?’. Mentirei se dicessi che è stato facile, o che è stato semplicemente l’anno più bello della mia vita, dipende da che punto di vista lo si guarda. E’ stata dura, difficile, ma non sono mancati molti momenti felici. Prima di salire su quel pullman direzione New York lunedì sera abbiamo parlato di come siamo cambiati, di cosa pensavamo ci avrebbe aspettati a casa, ma nessuno avrebbe potuto prevedere quelle sensazioni che mi hanno trovata mercoledì al mio arrivo e nessuna parola può veramente descrivere le mie sensazioni. Alla domanda ‘com’è andata?’ rispondo sempre chiedendo ‘mi trovi cambiata?’, ma la risposta è sempre negativa perchè tutti pensano che io mi riferisca all’aspetto fisico, invece no, voglio sapere come sono cambiata caratterialmente, sapere se quest’anno, se il tempo che ho avuto per riflettere mi ha reso diversa. Lunedì sera quando abbiamo dovuto riempire i soliti fogli di AFS, alla domanda ‘cosa è cambiato di te che non ti aspettavi?’ ho risposto con un paio di cose. Non mi aspettavo certi cambiamenti che invece ora sono parte della nuova me, ho dovuto imparare a conviverci, a renderli parte del mio nuovo carattere. Avere tanto tempo libero mi ha aiutata a conoscermi, essere a conoscenza di ogni singola parte di me, di pregi e difetti e finalmente so come tirarne fuori uno o reprimerne un altro. Mi fa strano scrivere da qui, dall’Italia, nuova postazione, nuovo paese, ma sempre la stessa me. Ammetto che questi giorni sono stati un alternarsi di momenti felici e momenti in cui non facevo altro che piangere, sono ancora confusa, ma sono super felice di poter attraversare una porta e abbracciare la mia famiglia. Sensazioni bellissime.

Martedì siamo arrivati a New York all’alba, tutti che dormivano sul pullman e quindi mi sono goduta la vista del sole che spuntava da dietro i grattacieli. La vista delle centinaia di valigie nel parcheggio mi ha resa felice, abbiamo passato 18 ore in un college a contatto con persone che hanno vissuto esattamente la stessa nostra esperienza, che provavano la stessa stanchezza. Più che un college sembrava un asilo: tutti erano buttati su pavimenti e divani, a dormire, alla fine noi che arrivavamo dalla Virginia avevamo fatto uno dei viaggi più corti con le nostre 6 ore di pullman. In 1000 abbiamo aspettato la chiamata per il nostro pullman per l’aeroporto JFK, felici e veramente ansiosi di finalmente avere la possibilità di dormire sull’aereo. Noi italiani siamo stati uno degli ultimi gruppi a partire, con Hong Kong, Germania e Thailandia, siamo partiti alle 21.45 e sono crollata subito nonostante stessi guardando il film Divergent, risvegliandomi solo per la cena e la colazione. Mi sono persino addormentata durante l’atterraggio e quando abbiamo toccato terra mi sono presa un colpo. Dopo un’altra ora sono finalmente atterrata dove l’unica cosa che mi separava dalla mia famiglia erano delle porte automatiche: immaginatevi l’ansia nell’aspettare le valigie. Una volta uscita da lì, le lacrime, urla, i pianti, le risate. Non so bene come spiegare le mie sensazioni. Non voglio dire altro, è giusto tenerle per me, è stato uno dei momenti migliori della mia vita. Il momento non è finito perchè una volta arrivata a casa ho avuto un altro attacco di pianto in quanto ho avuto un’altra sorpresa grandissima. Tutte le persone più importanti dell mia vita erano davanti al mio garage e in quel momento mi sono sentita molto grata di essere a casa, di stringermeli tutti. Ripeto che non si può capire a pieno questo momento a meno che non ci sia passati. Ora sono a casa da 5 giorni e posso dire di essere tornata nel pieno della movida, tra molte uscite con gli amici tutto il tempo passato a casa è stato veramente poco e quindi questa sera mi godo un po’ la pioggia che scende fuori dalla finestra e il mio solito tè verde.

Home sweet home.

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Venezuela: potrebbe avere tutto e invece non ha niente.

Trevor, studente di quarta al Liceo “Sereni” di Luino, racconta la situazione sociale del Venezuela, dove sta trascorrendo l’anno scolastico 2013/14.

La situazione a Mérida è tornata pressoché normale. Sí, è tornata, perché a partire dal 12 febbraio, più o meno, (#12F sulle reti sociali) la situazione qui era cambiata molto. L’ultima volta che vi ho scritto era dicembre. Da allora sono cambiate un po’ di cose. Le feste le avevo passate molto bene, eravamo andati in crociera a Curacao, Colon, Cartagena (città stupenda) e Aruba; le vacanze purtroppo finirono e tutti tornammo alla routine quotidiana.
Come detto, però, il 12 febbraio cambiò qualcosa. In occasione del Día de la Juventud (Giornata della Gioventù) moltissimi studenti, ai quali più tardi si sono uniti molti altri venezuelani, decisero di iniziare a protestare per lo stato di insicurezza in cui si trova il Paese e per la situazione economica della quale vi faccio un breve esempio. Un giorno sono andato con mia mamma a Farmatodo (una catena di supermercati), la fila per entrare era interminabile, a occhio una cinquantina di metri. Una domanda sorge spontanea: perché? la risposta? era arrivato un camion di carta igienica e la coda era quasi tutta per poterne comprar un pacco, sì, un solo pacchetto perché a ogni persona era stato dato un ticket che dava diritto a entrare ma non a comprare tutto ciò che voleva o poteva. Infatti, per determinati beni è permesso acquistare una quantità limitata per persona. Mi spiego meglio, alcune cose non arrivano molto spesso ai supermercati perché, come dicono qui, “hay escasez” ovvero “c’è carenza”, di cosa? di beni di primaria necessità (carta igienica, latte, l’utilizzatissima farina di mais solo per citarni alcuni) e di questo la popolazione si era da tempo stancata e aspettava solo un pretesto per iniziare a protestare. Il pretesto si presentò quando, senza apparente motivo, fu arrestato uno studente e di conseguenza gli studenti universitari iniziarono a protestare. In pochi giorni la situazione peggiorò, le lezioni furono sospese, in città arrivò la guardia nazionale e nel Paese morirono addirittura delle persone. Il carnevale e la Feria del Sol (con le corride), che avrebbero avuto luogo i primi giorni di marzo, furono annullate e anche il viaggio alla Gran Sabana organizzato da AFS fu posticipato. Molte strade della città erano bloccate da barricate, venivano bruciati copertoni e immondizia e in quel periodo era molto di più il tempo che passavamo in casa non facendo praticamente niente che quello speso fuori dalle quattro mura.

Per il Governo però non stava succedendo niente, immagini dell’anno scorso, di gente felice, a carnevale, in settimana santa, al mare, godendosi la vita venivano trasmesse dalla televisione di Stato quando la realtà del Paese era un’altra.

La realtá del Paese è un’altra.

La realtà del Paese è un Governo dispotico, assolutista, non c’è più libertà di stampa, alcune emittenti sono state oscurate perché dicevano la veritá, raccontavano quello che sta succedendo. Grazie ai social network e a internet, però, le notizie si sono diffuse rapidamente e molti Paesi hanno dimostrato solidarietà, finalmente i social servono a qualcosa!
Ciò nonostante in poco tempo la situazione nella mia cittá è tornata normale, niente più baricate, niente più proteste, niente di niente. Sembra non sia successo nulla, sembra che le molte vite perdute siano andate sprecate. Spero non sia stato inutile il loro sacrificio. Il Venezuela è un Paese bellissimo, è in una posizione strategica nel Mar dei Caraibi, è ricco di minerali, insomma ha di tutto eppure è caduto in una crisi profonda, così profonda che la gente è costretta a fare file interminabili per entrare a un supermercato. Il Venezuela è un Paese che potrebbe avere tutto però non ha quasi niente. Questa gente merita una patria migliore, merita un Governo migliore, un Governo che gli dia qualcosa perché loro hanno dato molto a me e perché non è ammissibile vivere come vivono molti venezuelani, nella paura.

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Da Germignaga a Merida, Venezuela

Trevor Torbucci del Liceo “Sereni” di Luino sta trascorrendo l’anno scolastico in Venezuela. Ecco le sue notizie a metà esperienza.

Buon pomeriggio dal Venezuela (buona sera a voi che siete in Italia),

[…]

Ora, peró, passiamo a cose piú interculturali. Devo dire che ambientarmi, a differenza di quanto pensavo, non é stato difficile anzi si potrebbe dire che é stato quasi facile. La famiglia da subito mi é piaciuta moltissimo e mi sto trovando molto bene anche perché giá dai primi giorni mi hanno fatto sentire a casa. Per quanto riguarda la lingua, non é stato molto difficile apprenderla anche grazie ai ragazzi del Club Juvenil de AFS Mérida che per la prima volta nella loro storia hanno organizzato un corso per noi stranieri (ovviamente non smetto di apprendere parole nuove ogni giorno). 
La scuola é iniziata piú o meno un mese dopo il mio arrivo in Venezuela. É differente da quella italiana, non solo come facilmente immaginabile nella parte dell’edificio, ma sopratutto nell’orario e nelle materie effettuate. Qui le lezioni iniziano alle 7.00 !!!!, finiscono 3 giorni alle 13.30 e gli altri due alle 12.00 e la cosa piú bella é che si va a scuola dal Lunedí al Venerdí e il Sabato si puó DOR-MI-RE!!!  Tutto questo peró non é ció che mi ha colpito di piú poiché quello che veramente mi é sembrato straordinario é la PROMO (ossia la promoizione). La mia é la numero 45, la Promoción XLV, ció che piú mi ha affascinato sono le attivitá che si organizzano per raccogliere fondi per la festa di fine anno: per esempio per il Día del Estudiante (Giorno dello Studente) si sono organizzati dei giochi per i bambini de Primaria (le Elementari) mentre per Natale una “festa” per alunni e genitori  (che abbiamo chiamato BUON NATALE XLV) con vendita di panini dolci e bibite, giochi da tavola e un talent show e per Carnevale e San Valentino si faranno altre cose. Inoltre, la scuola ha una squadra di calcio, di cui faccio parte, che affronta le squadre di altre scuole nell’Intercolegial e ogni sezione ha la propria squadra che si fronteggia contro le altre nell’Intercurso. Proprio ieri noi di 5 B abbiamo battuto quelli di 4 A.
Con i compagni di scuola tutto va per il meglio, ho fatto amicizia con moltissime persone nuove, ovviamente ci sono amici piú stretti ma anche persone che mi salutano chiamandomi per nome e io non ho la piú pallida idea di chi siano. Peró, che dire, questo é il Venezuela!! le persone sono cosí, aperte, sociali, curiose e soprattutto come dicono qui “pana” (che si potrebbe tradurre con amichevoli) e questa é la cosa che piú mi piace.
Come detto la “settimana scolastica” va da lunedí a venerdí e poi?….poi arriva il fin de semana la parte piú bella della settimana in tutti i Paesi del mondo. Giá dal venerdí sera ci si riunisce con gli amici per guardare un film al cinema o in casa di qualcuno, per mangiare una pizza (rigorosamente fatta da noi!) o semplicemente per stare insieme con un po’ di musica, altra cosa dei Paesi latini che mi piace moltissimo. Perché anche qui ascoltano musica elettronica e cose simili peró i migliori generi per ballare e, soprattutto per ballare con una ragazza, sono il reggaeton, il merengue e la salsa (generi che in Italia sono pressocché sconosciuti).
Poi viene il sabato, dedicato al riposo assoluto la mattina, un po’ di studio il pomeriggio e la sera generalmente un’altra riunione con gli amici. Terminata la riunione si torna a casa o a volte si rimane a dormire a casa di qualche amico per poi svegliarsi in quello che, insieme al lunedí, é il giorno piú brutto e triste della settimana, la domenica. Perché sai che teoricamente puoi rilassarti un altro po’ peró allo stesso tempo a breve dovrai iniziare a studiare perché il giorno seguente é lunedí e inizia una nuova settimana di scuola.
Come tutte le cose nella vita, non é tutto rose e fiori. I problemi ci sono e la difficoltá piú grande é forse riuscire a esprimere quello che realmente vuoi dire in una lingua che non é la tua perché a volte puoi dire qualcosa pensando che significhi “ma” e invece significa “cane” (e tutti muoiono dalle risate), mentre altre volte il malinteso puó essere piú grande e potresti aver offeso qualcuno senza volerlo. I momenti tristi, anche se fortunatamente pochi finora, ci sono. Uno su tutti quando letteralmente spediscono a casa (in Italia) colui che era quello con cui forse avevi legato di piú tra tutti i ragazzi di AFS. Altre volte invece potresti provare rabbia, magari per come hanno rimandato a casa quel tuo amico (quasi fratello) o semplicemente perché, a causa della situazione economica del Paese, quasi non trovi rasoi in nessun supermercato della cittá. Peró é forse soprattutto da queste situazioni che si puó apprendere molto; una cosa su tutte che si impara é come gestirsi, capire che un giorno un dollaro vale 40 bolivares e tre mesi piú tardi puó valere il doppio e per questo aspettare a cambiare i soldi perché non c’é necessitá urgente o magari imparare a non sprecare alcuni beni materiali di primaria necessitá che peró non si incontrano facilmente. Tutte piccole cose che aiutano a conoscere e comprendere il mondo e sopratutto a conoscere e comprendere sé stessi.
Un saluto e un abbraccio a tutti. Un in bocca al lupo particolare ai ragazzi che stanno facendo le selezioni.
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Ciao Varese

Joyce Pepe, del Liceo Scientifico “Vittorio Sereni” di Luino, ci aggiorna sulla sua vita negli Stati Uniti, dove sta trascorrendo questo anno 2013-14.

Ciao Varese,

in effetti i primi mesi sono stati i più faticosi, ma ora che sono quasi al quarto di mese le cose stanno migliorando di giorno in giorno, ho nuove aspettative per il proseguimento della mia esperienza rispetto all’inizio dell’anno. Solo 5 mesi fa quando guardavo avanti pensavo a quanti amici mi sarei fatta, le persone speciali che avrei conosciuto, come mi avrebbe sorpresa l’America, mentre adesso non ho piu’ molte aspettative, vivo di giorno in giorno, godendomi le cose inaspettate che mi succedono, ho imparato a non aspettarmi nulla, perche’ tutto puo’ cambiare da un giorno all’altro. Sono diversa, quello sì: il peso dei 18 anni che arriveranno tra 2 mesi si fa sentire, mi sento più matura, più responsabile, in grado di farcela da sola senza l’aiuto di nessuno.

Le difficoltà che avevo prima non ci sono più, una delle cose che mi pesava di più all’inizio dell’anno era farmi degli amici, le persone non sono come nei film, sono piuttosto chiuse rispetto all’Italia. Pensate che una volta stavo parlando con una ragazza della mia squadra di pallavolo e  le ho chiesto chi fosse la sua migliore amica, le mi ha risposto ‘Hannnah’, dieci minuti dopo le ho sentite scambiarsi i numeri. La concezione di amicizia che abbiamo è diversa, e questa e’ stata la parte piu’ difficile per una persona come me che conta sempre sui propri amici. I miei migliori amici per adesso sono altri exchange students, persone che stanno vivendo la mia stessa esperienza, peccato che vivono a 3 ore di macchina da qui.

La cosa più importante è avere una fantastica famiglia ospitante alle spalle, che fa di tutto per rendere la tua esperienza indimenticabile, per farti sentire parte della famiglia e non un ospite. Due giorni fa ho avuto il mio primo Thanksgiving (Festa del ringraziamento, ndr), ma non ultimo spero. Tutta la famiglia, i genitori, i miei due fratelli, mia sorella e io ci siamo seduti in cucina mentre ognuno faceva la propria parte per aiutare a preparare la nostra cena. Non abbiamo fatto niente di particolare, ma semplicemente il fatto di stare insieme una giornata senza essere disturbati dai vari impegni ha incrementato il nostro rapporto. I miei genitori ospitanti non riesco a chiamarli mamma e papà e probabilmente non ci riuscirò mai: per quanto mi senta a casa e parte della famiglia, non riuscirei a pronunciare quelle due parole con persone che alla fine non mi hanno visto crescere per 17 anni. E’ una cosa personale penso, ci sono altri ragazzi nel resto del mondo con i quali ho contatti sui social media che non hanno alcuna difficoltà.

A proposito degli altri exchange students, all’inizio della mia esperienza AFS mi era stato detto di non fare paragoni con gli altri studenti, ma a volte può aiutare molto, vedere come sta proseguendo la loro esperienza, confrontarsi sulle difficoltà che abbiamo e consigliarci a vicenda. Per quanto riguarda i social media e i contatti con l’Italia, visto che non ho alcun problema di mancanze, di solito entro su Facebook ogni giorno, vedo i miei amici su Skype ogni fine settimana in base agli impegni, la domenica ho la chiamata fissa con i miei nonni, mentre è dalla seconda settimana di agosto che non parlo né vedo la mia famiglia: sarebbe troppo difficile, anche solo parlarne con i miei nonni mi fa venire le lacrime agli occhi, non funzionerebbe. Per fortuna che esiste Whattsapp, che uso più o meno regolarmente anche solo per piccole cose.

La scuola, la famosa high school americana dei film, ha seguito le mie aspettative, la mensa c’è, l’homecoming dance e il prom pure, gli armadietti anche. Per quanto può risultare strano preferisco quella italiana, mi manca avere una classe unica ogni giorno con la quale puoi stringere dei rapporti con le altre persone invece di correre ogni volta alla fine dell’ora da una parte all’altra della scuola. La parte che invece mi ha sorpresa e mi piace molto sono le attività che vengono organizzate ogni giorno, dai club agli sport. Io personalmente sono nel club di francese e spagnolo, nei mesi di settembre e ottobre ho fatto parte della squadra di pallavolo. Una bella esperienza fare parte di una squadra, di un gruppo, mi ha stupita molto quanto ogni ragazza ha creduto in me anche se non ho mai giocato prima, mi ha fatto sentire bene. Le materie che ho preso a scuola seguono un po’ quelle che ho a scuola in Italia. Essendo in un liceo linguistico ho deciso di prendere francese e spagnolo poi fisica, chimica, matematica, diritto e inglese. Ad essere sinceri è più facile. Non ci sono le ore di studio al pomeriggio come per tutti gli studenti italiani che frequentano il liceo, lasciano molto spazio agli sport e ad attività extra-curricolari. Fortunatamente io sono una senior, quindi avrò la possibilità di andare al prom anche se stanno ancora discutendo se farmi fare o meno la graduation.

I weekend qua iniziano il venerdì pomeriggio, di solito io e la exchange tedesca facciamo sempre qualcosa, un pigiama party, shopping o semplicemente ci guardiamo un film. E’ difficile uscire se non si ha la macchina. I giovani passano il loro tempo libero in casa principalmente, uscire la sera per andare nei bar come in Italia non si può fare, non solo perche’ non ti farebbero entrare, ma anche perche’ di bar non ce ne sono.

Tra poco è Natale, a quanto sembra il periodo più difficile dell’anno per gli exchange students in quanto siamo lontani dalla nostra famiglia. L’atmosfera natalizia si inzia far vedere, ieri sono andata a casa di una mia compagna di scuola e abbiamo addobbato i primi 3 alberi di Natale mentre oggi andremo a prendere il nostro albero, poi ci sono le classiche tazze rosse di Starbucks, l’illuminazione sui tetti delle case, la musica natalizia a WAL MART. Io sono pronta.

Vi auguro un buon Natale se non ci sentiamo più, e un in bocca al lupo a tutti gli exchange students che stanno facendo le selezioni adesso.

Joyce

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News dalla Svezia

Edoardo Franco, dell’Istituto “Giovanni Falcone” di Gallarate, ci scrive da Gotland, in Svezia, dove sta trascorrendo l’anno scolastico

La scuola svedese è completamente diversa: puoi usare il telefono, al posto dei libri si usa il pc, puoi prendere e uscire tranquillamente dalla classe, se sei assente non bisogna portare giustifiche e, cosa più importante, si ha un rapporto informale con gli insegnanti: loro sono al tuo stesso livello…

Il weekend non si fa molto: i ragazzi lo passano con le famiglie o praticando sport. C’è anche da dire che abito a Gotland, se vai in una grande città qualcosa da fare lo trovi sempre!

Non mi sento molto con gli altri ragazzi di Intercultura: preferisco relazionare con la gente locale, e mantengo i contatti solo col ragazzo turco col quale ho condiviso la stessa casa per un mese.

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Vukovar

Mateja Markotić, autrice di questo toccante racconto, frequenta da settembre il Liceo Scientifico “da Vinci” di Gallarate.

Primo giorno delle scuole superiori. Sono emozionata e ho anche un po’ paura. Oggi tutto cambia per me. Non abito più a cinque minuti dalla scuola e non posso andarci insieme ai miei amici, ma devo prendere il treno da sola. Questo è quello che volevo, ma in questo momento non mi sembra così bello. Spero almeno che la mia nuova classe sia accogliente, che i compagni siano simpatici e i professori non siano dei noiosi tromboni.
Appena arrivo a scuola, mi perdo. L’edificio ha cinque piani e non ho idea di dove devo andare. Non c’è nessuno a cui chiedere, perché naturalmente sono in ritardo e non vedo in giro neanche un bidello. Si avvicina un ragazzo, meno male. “Scusa, sai dove è la IA? “ E lui: “Si, è qui, su questo piano, a metà del corridoio”.
Sulla mia faccia spunta un sorriso, sento persino i muscoli un po’ indolenziti; devo avere i lineamenti tirati. Ok, primo giorno e mi presento in forma smagliante…, manca solo il brufolo della catastrofe! “Grazie mille. Sono completamente persa”. “Ti capisco, è normale, anch’io ero così il primo giorno. Io sono Marko e tu?”. “Piacere, Petra. Sei il primo che incontro in questa scuola, ho temuto ci fossero solo fantasmi!”
Ma ora è tempo di incontrare anche gli altri, sono finalmente arrivata davanti alla porta della IA, si sentono le voci degli studenti che parlano forte. Devo bussare, entro, c’è un’energia molto positiva, il professore di Croato si presenta, mi chiama per nome e mi invita a prendere posto.
Dopo la fine delle lezioni, rimango con i compagni, andiamo verso il parco, vogliamo conoscerci meglio. Sono molto felice, forse quella brutta rughetta sulla fronte, che mi si forma quando sono preoccupata o concentrata, mi è sparita. La mamma mi prende sempre in giro: “Ecco la mia intellettuale: ti verranno le rughe prestissimo se tieni sempre le sopracciglia aggrottate così. Distendi la fronte!” e si curva a darmi un bacio.
Cammino verso la stazione: è una bella giornata, tutti sembrano davvero simpatici, soprattutto quel Marko, che non è neanche niente male. “Petra! Petra! Aspettami!” Mi giro, è lui. Non posso crederci. Gli sorrido e lui: “Perché cammini così veloce? Abbiamo il treno fra venti minuti. C’è tempo”.
Fantastico, non devo prendere il treno da sola, soprattutto lo prendo con lui. Ma come sa che prenderemo lo stesso treno?
Parliamo di tutto, mi pare di conoscerlo da una vita. E così giorno dopo giorno, diventiamo inseparabili. Prima amici e poi presto, anzi prestissimo, innamorati. Lui è sempre al mio fianco, e del resto non devo dividerlo con molti amici. Mi suona un po’ strano, ma non mi pare il caso di parlargliene. Sto davvero molto bene con lui e non posso più nascondere questa cosa meravigliosa che mi sta accadendo. Non posso continuare a tenere il segreto con papà. La mamma lo sa già, lei è di sicuro il mio angelo, ma papà è per me una persona assolutamente speciale. Gli basta uno sguardo per capire cosa mi succede e poi, con la sua calma, è capace di farmi parlare. In fondo è il mio miglior consigliere, anche meglio di Iva, che conosco fin dall’asilo e che passa con me qualche ora al telefono tutti i giorni. La mamma dice che dovrei diventare azionista della Optima, almeno quest’abitudine avrebbe qualche vantaggio. Iva, come anche le altre mie amiche, sa bene che vado matta per papà, forse loro mi invidiano un po’, perché di certo è chiaro che anche lui mi adora.
Ho deciso, nel pomeriggio vado in studio da papà con una scusa, gli porto kremšnite che gli piace da impazzire, prendiamo insieme un tè e gli racconto di Marko.
Prima però devo fare i compiti, verrà Jelena a casa e studieremo insieme; domani verifica di matematica, niente scivoloni. Ecco Jelena viene, lo sa tutto il vicinato. L’ultima volta ha svegliato il bambino del piano di sopra, che ha cominciato a strillare e si è disperato per mezz’ora. “Arrivo Jelena” sono costretta a urlare, avvicinandomi alla porta “non suonare di nuovo, ti prego!”. Jelena è sempre allegra, parla un casino, dei compagni, dei proff., di suo fratello che prende una nota un giorno sì e l’altro pure,  ecc. Il discorso cade su Marko, nessuno a scuola sa che stiamo insieme. “Con chi esce?” chiedo “conosci i suoi amici?” “ Non lo sai?”- mi risponde Jelena” “Che cosa?” dico io. E lei: “Marko è serbo e ai ragazzi della sua classe e della scuola, questo non va bene per niente. Non dico che questo fatto sia una bella cosa, ma è così. Certo Marko è molto carino, ma non posso neanche dire se è simpatico oppure no, perché anch’io lo evito. Girargli intorno vuol dire andare a cercarsi un sacco di guai”.
Non so che cosa dire. Sono confusa e in preda a mille sentimenti diversi. Mi chiedo perché non mi abbia detto che è serbo, non si fida di me? Poi penso a quanto si debba sentire solo e frustrato, che bastardi sono i suoi compagni! Ma ora ha me, non è più solo, e anch’io ho lui. Chi se ne frega se è serbo, non sono mai stata tanto felice in vita mia ed è solo questo che importa.
Jelena mi sta guardando: “Che ti succede? Hai mal di pancia? Hai una faccia da far paura” “Non è niente, forse mi verrà l’influenza, ma ora è meglio che mettiamo la testa nei problemi di matematica, altrimenti domani sono dolori”
Non riuscivo a concentrarmi, non avevo mai fatto tanta fatica a lavorare, anche Jelena, sempre così giuliva, se ne era accorta: “Speriamo che la prof. non infarcisca la verifica di domani con esercizi troppo tosti, altrimenti fioccano le insufficienze”. Se ne va, esco con lei, anche più di prima ho bisogno di parlare con papà, devo sfogarmi con lui, raccontargli di questa ultima porcheria e proprio ai danni del più dolce serbo che abbia mai incontrato, di quello di cui sono pazzamente innamorata. Non so se gli dirò proprio così, ma devo vedere papà al più presto. Eccomi, sono arrivata, l’ho sempre detto che lo studio di papà è troppo austero, mette in soggezione. “A cosa devo quest’amabile sorpresa?” dice papà. “E non hai ancora visto che cosa ti ho portato” gli rispondo, aprendo il cellofan in cui è avvolto la kremšnita. ”Cavolo” dice papà “ho dimenticato il compleanno di qualcuno? Ti sembra bello tentarmi in questo modo, proprio ora che tua madre sta cercando di tenermi un po’ a stecchetto?” “A dire il vero, sono venuta per dirti una cosa importante” “Un brutto voto? Non ci credo” “No papà, non si tratta della scuola, o almeno, forse sì, ma i voti non c’entrano niente”. “Avanti, racconta che cosa ti è accaduto?” “Niente di brutto, papà è solo che mi sento diversa, è come se avessi le ali ai piedi, sono distratta, fatico a concentrarmi, non vedo l’ora che suoni la campana, non vedo l’ora di…” “Sei innamorata? La mia bambina è innamorata di un ragazzo in carne e ossa? Non di un eroe dei fumetti, non di una rock star o dell’attore del momento, ma di un adolescente, con un po’ di peluria e tanti grilli per la testa? È così pulcino mio? Vieni qui e dimmi qualcosa di più, come si chiama? È in gamba?” “Sì papà che lo è, è dolce e sensibile e intelligente e non mi ha riempito la testa con i suoi problemi, mi ha ascoltato e solo dopo ho scoperto che i suoi sogni potrebbero essere i miei. Non mi è mai capitato, papà, con nessuno, non mi sono mai sentita così vicina a me stessa come quando sto con lui, lo guardo e mi sembra più chiaro quello che voglio. Ma oggi ho studiato con Jelena e lei mi ha detto che Marko, questo è il suo nome, è un ragazzo serbo e per questo non ha amici qui a Zagabria, i suoi compagni lo escludono e ho saputo anche che ha subito delle minacce.”
Il volto di papà che mi sta fissando è rigido, un po’ contratto, la sua espressione prima benevola e complice, è passata dalla sorpresa al turbamento. Dai suoi occhi potevo vedere che era addirittura sconvolto. In un istante tutto è cambiato. “Che c’è papa?” Improvvisamente si alza è confuso, borbotta qualcosa, dice che deve uscire, ha un appuntamento e se ne va. Anch’io sono confusa, ma non presto troppa attenzione al fatto, del resto, sono piombata nel suo studio senza preavviso, forse ha un incontro di lavoro molto importante di cui si è improvvisamente ricordato e non può arrivare in ritardo. Certo che non ho neanche potuto dirgli che la mamma ha voluto che invitassi Marko a cena e che stasera potrà incontrarlo.

Ho aiutato la mamma in cucina, la cena è invitante e tutto è ormai pronto. Finalmente anche papà è tornato a casa, temevo rientrasse tardi. “Ciao papà, siamo in quattro a tavola stasera”. Neanche il tempo di chiedere chi viene, Marko suona alla porta. “Papà, questo è Marko, Marko questo è mio padre, la mamma è ancora in cucina”. Ci sediamo a tavola, si comincia a chiacchierare e a mangiare. Che strano però, di solito la conversazione con papà è brillante, è così bravo a tenere accesa la discussione, non ti stanchi di ascoltarlo, ma stasera rimane silenzioso per tutto il tempo, una volta tanto è la mamma a tenere banco, mica male neanche lei. Alla fine però facciamo l’annuncio: quest’estate io e Marko andremo al mare insieme, e scorrazzeremo un po’ per l’Europa.
Mio padre si alza dal tavolo e rivolto a me, con un tono di voce che non ricordo affatto, esclama: “ Non voglio più sentire queste assurdità. Tu non vai con lui da nessuna parte, anzi non puoi vederlo mai più! Hai capito?”
Tutti lo guardiamo sorpresi e un po’ storditi. Nessuno capisce che cosa stia accadendo. “Tu sei un serbo” continua” e i Serbi non sono ammessi in casa mia! I Serbi mi hanno portato via ciò che avevo di più caro. Hanno ucciso mio fratello. Adesso fuori!!! Non voglio vederti mai più. Ti vieto di vedere mia figlia!”.
Solo ora io e mia madre cominciamo a realizzare. La mamma, rivolgendosi a me dice: “Forse è meglio che Marko vada a casa. Sono spiacente ma penso che papà non stia bene”.

Ero furiosa con mio padre. Che razza di comportamento è questo. Non è certo quello che i miei mi hanno insegnato. Ma una cosa è la teoria e un’altra la pratica? Sono desolata. Porto a casa per la prima volta il ragazzo di cui sono innamorata, un bravo ragazzo, un tipo intelligente, uno di quelli che sa tener testa a una conversazione non banale e papà mi fa uno scherzo del genere? Non posso crederlo e neanche Marko poteva crederci. Quanto sarà offeso e ferito. Se ne é andato come un lampo, neanche il tempo di dirgli ciao.
Raggiungo la mia camera, mi rifiuto di parlare con tutti tranne che con Marko. Lo chiamo al cellulare, mi dice che fra me e lui non è cambiato niente, ma che ha dovuto andarsene subito da casa perché tutta la situazione era insopportabile per lui. Ci accordiamo per vederci il mattino seguente.
Il giorno dopo esco senza dire una parola, tanto sono contrariata, non voglio neanche vederli, i miei.
Incontro Marko davanti a scuola. Entrambi non sappiamo che cosa dire, ci guardiamo soltanto. Marko rompe il silenzio: “Che cosa facciamo? Sei troppo importante per me. Senza di te penso di non potercela fare, ma se hai deciso di rispettare la volontà di tuo padre, capisco. Cercherò di farmene una ragione”. “Ma che cosa vai dicendo?! Non mi passa neppure per la mente! Non ti lascerò! Solo dobbiamo trovare il modo di mettere le cose a posto. Certo è che non so niente della storia di mio zio, non me ne hanno mai parlato. So soltanto che papà ha perso un fratello più giovane di lui. In famiglia non se ne parla. In questo modo anche per me è tutto più difficile. Questo pomeriggio andrò a casa della zia, la sorella di mio padre. Ogni volta che ho avuto problemi con lui, lei mi è stata vicino. Spero che mi racconti tutta la storia, se non è troppo doloroso anche per lei. Ci sentiamo più tardi e ti dico come andata. Adesso dobbiamo entrare”.
Arrivo da zia Gordana e le racconto tutto. All’inizio mi guarda senza dire niente, vedo nei suoi occhi un velo di lacrime e finalmente: “Certo non potevi sapere che nostro fratello Dario, tuo zio, è stato ucciso dai Serbi durante la guerra. Tuo padre Matej non è mai riuscito ad accettare la sua morte. Non conosco tutti i dettagli, perché al quel tempo ero negli Stati Uniti, e non ho voluto sapere di più. In casa nostra è scesa come una coltre su quel lutto, per andare avanti si doveva lasciare il passato alle spalle. So chi può aiutarti. Si tratta di Josip, il miglior amico di Dario. Questo è il suo indirizzo.” “Grazie zietta, ti voglio tanto bene. Sai sempre come darmi una mano!”

Fra mezz’ora incontrerò Marko all’indirizzo che la zia mi ha dato. Suoniamo il campanello e quando la porta si apre, mi presento. Josip sorride e ci invita a entrare. Gli raccontiamo quello che ci accade, chiedo a Josip se può aiutarmi a convincere mio padre che Marko è un bravo ragazzo e che il fatto che sia serbo o meno non fa differenza: “La zia dice che tu puoi aiutarmi.” Lui mi guarda pensoso e mi dice sommessamente: “Sei la prima persona a cui racconto questa vicenda. Sono l’unico che la storia conosce quasi per intero. L’indipendenza della Croazia nel 1991 iniziò con la battaglia per la conquista di Vukovar, dove i Croati difendevano la città contro l’esercito dei Serbi. Era molto difficile vivere a Vukovar in quel periodo. Noi eravamo lì, avevamo vent’anni e volevamo combattere per il nostro paese. Un giorno, dopo l’ennesimo bombardamento, Dario sembra molto nervoso, vuole uscire a cercare qualcosa da mangiare. Era tutto molto complicato. Mi saluta: “Torno presto”.
Quella è stata l’ultima volta che l’ho visto vivo. Poco dopo ricominciano i bombardamenti. Insieme ai compagni lo cerco per giorni senza trovarlo. Tutti alla fine ritengono che sia morto sotto quell’inferno di bombe o che l’abbiano fatto prigioniero i Serbi. Io però non mi rassegno. Neanche volendo sarei riuscito, non potevo credere che fosse scomparso, né morto. Forse aveva bisogno di aiuto. Continuo a cercarlo da solo. Passano un paio di settimane. Ero frustrato e cominciavo a perdere le speranze, ma appena possibile perlustravo ugualmente la foresta palmo a palmo. A un tratto, vedo un corpo disteso a terra, quasi nascosto nel fogliame. Mi avvicino, il cuore mi batte in gola e lo riconosco. Era lui, spero che stia dormendo o che sia solo svenuto. Ben presto però mi accorgo che è un cadavere, il mio migliore amico, per me un fratello, era morto. Non potevo crederci, anche se di morti ne avevo visti già tanti, in quel terribile inizio d’autunno del 1991. Molti cittadini di Vukovar, i feriti ricoverati all’ospedale erano stati prelevati dalle truppe serbe e deportati chissà dove. Avevamo poi saputo che erano stati torturati e trucidati. Molti civili, che avevano cercato rifugio nelle cantine o in nascondigli di fortuna, erano stati scovati e uccisi. Erano già state trovate le fosse comuni, dove gli uomini di “Arkan” si erano sbarazzati dei cadaveri dopo i massacri. Avevo temuto che fosse stato catturato e ucciso dai Serbi, e ora che era davanti ai miei occhi, con i capelli solo un po’ scomposti e un’espressione contratta, sembrava dirmi quanto sia insensato a vent’anni venire strappato con violenza dalla vita.
Mi accorgo che il corpo non può essere rimasto lì per molto tempo, è smagrito ma non livido. Mi accorgo di una ferita alla gamba piuttosto importante, che sembra però in via di guarigione. Non capisco. Cerco di sollevargli gli arti che sono coperti dalle foglie e sulla caviglia destra vedo inconfondibili i segni di un morso. Ecco che cosa lo ha ucciso, il morso di un serpente, probabilmente una grossa vipera che ha calpestato e non gli ha lasciato scampo. Certamente con la gamba così malridotta, non poteva trascinarsi verso il paese e chiedere aiuto. Cerco nei vestiti qualche documento, c’è un foglio, una lettera. E’ destinata alla sua famiglia a Zagabria.
Miei cari,
come state?
È da molto tempo che non vi scrivo e ho tanta nostalgia della casa e del frastuono delle voci durante i pranzi, la domenica. Mi mancate tutti, so che siete in pensiero per me, non avendo mie notizie. Sapete di certo che quest’assedio è durissimo e i bombardamenti non ci danno riposo. In una di queste incursioni sono stato ferito gravemente a una gamba. Ero nel mezzo della foresta, privo di sensi, senza che i miei compagni potessero soccorrermi. Per fortuna alcune persone buone e generose, che cercavano rifugio nei boschi, mi hanno trovato e mi hanno trascinato nel loro nascondiglio. Mi hanno curato e nutrito e mi hanno permesso di ristabilirmi. Devo loro la vita ed eterna gratitudine. Ironia vuole che i Serbi mi abbiano quasi ammazzato e altri Serbi, fuggiaschi come me, mi abbiano soccorso e risanato. Davvero questa guerra è del tutto priva di senso. Noi e i Serbi siamo troppo simili. Abbiamo la stessa lingua. Tra di noi vi è e vi sarà sempre un legame forte. Dobbiamo aiutarci e non combatterci.
Volevo dirvi che ora sto bene e che mi mancate. Appena sarò in grado di farlo, tornerò a casa. Vi voglio tanto bene. A presto.
Il vostro
Dario

Sento una stretta fortissima al petto, Dario ha ragione. Tutto questo deve finire al più presto. Chi ha commesso crimini così terribili deve pagare. Mi consola il fatto che almeno so che cosa gli è successo, che non è finito in una fossa comune, che non è stato torturato, che altri Serbi, anche loro profughi, lo hanno aiutato. Non mi rassegno però alla morte del mio più caro amico, un ragazzo morto a vent’anni, che mi ha lasciato qui da solo a odiare la guerra. E non posso neppure dire la verità, rendere pubblica la lettera, dire di averlo trovato nel fogliame ucciso da un serpente. Se lo faccio, i Serbi che lo hanno aiutato saranno braccati e so che Dario non lo avrebbe voluto. La sua lettera è piena di gratitudine e non voglio fare loro del male. Inoltre tutti credono che sia morto per mano serba, è un giovane volontario croato che ha dato la vita per difendere la città di Vukovar. I compagni e la sua famiglia lo piangeranno come un eroe.
Ecco fino a oggi non avevo detto a nessuno della lettera e nessuno mi aveva chiesto di raccontare i particolari di come lo avevo ritrovato. “Hai ancora lettera?”, chiedo impaziente “Puoi aiutarmi, voglio mostrarla a mio padre. Grazie, grazie ancora”.

Marko vuole che vada a casa sua. Vuole parlare con i suoi genitori, raccontare che cosa incredibile è successa, mostrare loro la lettera. Del resto, a quell’epoca, anche loro dovevano vivere dalle parti di Vukovar, avevano visto gli eventi con i loro occhi, potevano conoscere altri dettagli. Appena il padre di Marko legge la lettera, riconosce la scrittura: “Durante la guerra noi abitavamo a Vukovar. All’inizio non volevamo tornare in Serbia, ma dopo gli inviti dei Serbi ad andarcene e le minacce, abbiamo deciso di rifugiarci nel bosco. Tutto era difficilissimo, procurarsi il cibo, un po’ di legna per scaldarsi. I colpi di mortaio non ci davano tregua e le incursioni degli aerei erano continue. Le pattuglie croate non ci avrebbero certo dato una medaglia. Un giorno mentre vagavamo per il bosco in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti, vediamo un uomo a terra. È ferito, è un ragazzo, ha una gamba e un braccio malconci, perde molto sangue. Lo trasciniamo nel rifugio, usiamo quei pochi medicinali che abbiamo per curarlo, e pian piano il ragazzo si ristabilisce. Quando sta un po’ meglio, insiste per andarsene, promette che non avrebbe detto a nessuno del nascondiglio nel bosco. Sa che lo stanno cercando e che noi abbiamo già rischiato molto per nasconderlo. Era una persona speciale, in mezzo a tutto quell’odio aveva mantenuto la barra, sapeva guardare al di là della propaganda e guardare il dramma della nostra gente con la stessa sofferente rabbia e compassione che provavamo noi. Eravamo certi che finita la guerra ci saremmo rincontrati, e adesso che sappiamo che cosa gli è successo, vogliamo, dobbiamo incontrare la sua famiglia, vogliamo incontrare tuo padre, Petra. So che Matej gli era molto caro, era il fratellone che lui amava e ammirava.”

Siamo a casa mia, mio padre apre la porta e vedendoci, diventa furioso. “Petra, mi hai proprio deluso, ti ho già detto che cosa penso dell’intera faccenda. Entra in casa e congeda le persone che sono con te!”
“Papà, abbiamo una lettera per te da parte di tuo fratello. Fuori dalla porta c’è una persona che ha conosciuto e salvato Dario mentre stata morendo dissanguato. Vuoi almeno sentire la sua storia?”
Consegno la lettera nelle mani di mio padre, che comincia a leggerla e non riesce a trattenere i singhiozzi. Non avevo mai visto piangere mio padre. Era chiaro che fra i due fratelli c’era un affetto profondo. Subito dopo Matej comincia a fare mille domande al padre di Marko. Non smettono più di parlare. Hanno un sacco di cose da raccontarsi. Io e Marko li guardiamo, le nostre mani si stringono fino a far male. Anche noi piangiamo e … ridiamo insieme.

Mateja Markotić

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La Cina che ho scoperto, tra rigore militare e affetto famigliare

Giorgia Davidivic, da Albavilla (CO), sta trascorrendo l’anno scolastico in Cina. Ha recenetemente vissuto la singolare esperienza di partecipare con i suoi compagni di classe ad un campo di addestramento militare. Nonostante le difficoltà di un’esperienza per lei singolare, ha saputo trarre alcuni importanti e non scontati insegnamenti sulla cultura cinese.

 

Prima di venire in Cina mi ero ripromessa di non tirarmi mai indietro e di cogliere ogni possibilità che potesse arricchire la mia esperienza. Fino ad ora sono stati diversi i casi in cui mi è capitato di lasciarmi andare, provando cibi strani, adattandomi alle abitudini cinesi e cercando di entrare nella loro mentalità per capire cose che, per noi occidentali, potrebbero sembrare inconcepibili.

Tuttavia, una volta avanzata da parte della professoressa la proposta di partire per una settimana di addestramento militare con i miei compagni di classe e le altre classi del gaoyi (primo anno), devo ammettere di aver seriamente riflettuto sulla promessa fatta a me stessa.

Nonostante questa prima esitazione, però, la mia auto-manipolazione è entrata in funzione, e non mi ci è voluto molto per convincermi del fatto che sarebbe stato un vero peccato perdere un’occasione del genere.

Il ritrovo per partire al campo era previsto per le 7:00 a scuola. Al mio arrivo tutti i miei compagni erano esaltati per il fatto che sarei partita con loro e che, di conseguenza, avremmo potuto passare più tempo insieme. Come in ogni occasione, i cinesi non mancano di entusiasmo che sanno trasmettere con estrema facilità.
Una volta giunti a destinazione, ci hanno velocemente assegnato le camere, ognuna delle quali era provvista di 5 letti a castello e un bagno.

Ad ogni modo, dopo questa prima sorpresa di benvenuto, abbiamo subito dovuto indossare le divise militari, per poi correre davanti all’edificio principale, dove si sarebbe tenuta una seconda cerimonia di apertura, questa volta un po’ più lunga. Ripensando a tutti i problemi che sorgono nel tentativo di organizzare le assemblee di istituto quando sono in Italia, mi riempio di ammirazione nel vedere come i cinesi riescano a far sistemare ordinatamente seduti su degli sgabellini alti una ventina di centimetri 500 studenti divisi per classe, sesso e in ordine d’altezza nel giro di un paio di minuti.

Ad ogni classe è stato assegnato un soldato-istruttore, il quale si sarebbe occupato della preparazione pratica e dell’allenamento quotidiano. Il nostro istruttore si chiamava Qizi Guo ed era vagamente simile a Gas-Gas di Cenerentola. Al primo impatto mi era sembrato eccessivamente severo, ma nei momenti di pausa era il primo a scherzare e a proporre gare di canto. L’allenamento era molto ripetitivo e faticoso, e ogni giorno era ben scandito secondo una precisa organizzazione. Ma, al di là della fatica che ha reso il tutto un po’ pesante, credo di aver capito più cose sulla Cina in questa settimana che negli ultimi tre mesi.

Ciò che più di tutto mi ha colpito è stato il rapporto tra professori e alunni, ma anche tra soldati e alunni. Nei momenti di serietà sanno davvero essere duri, ma nei momenti informali sanno essere amichevoli e complici,disponibili e veramente interessati alla salute, alla sicurezza e alla felicità degli alunni.
E tutto quel varco di formalità che sembra esserci durante i momenti di serietà, viene colmato in un batter d’occhio non appena se ne ha l’occasione.
A tal proposito, ci tengo a raccontare un episodio. Il 16 novembre era il compleanno di una mia compagna di classe, quella con cui ho legato di più. Dopo cena, Huang Hui, (nome della ragazza) mi ha detto che si sentiva un po’ giù di morale perché solo pochissime persone oltre me si erano ricordate del suo compleanno.
Durante la cerimonia serale hanno proiettato un video sulla famiglia in cui delle foto dei ragazzi con i loro genitori venivano fatte scorrere accompagnate da una musica malinconica e strappalacrime… i cinesi sanno essere molto melodrammatici in questo tipo di cose! Al termine del video un professore ha chiamato al bancone una decina di ragazzi dicendo che nelle lettere per i genitori avevano scritto informazioni che non potevano uscire dalla caserma e che, quindi, sarebbero stati puniti. La povera Huang Hui faceva parte di questi ragazzi e tutti noi eravamo dispiaciuti perché sapevamo che era il suo compleanno e che quello non era sicuramente il modo migliore per festeggiare.
Ad un certo punto, un soldato chiede silenzio, si spengono i lampioni, parte la musica e, dal lato destro dell’edificio,  ecco che arriva il padre di Huang Hui insieme ai padri degli altri ragazzi, ognuno con un’enorme torta a tre piani e una cassetta piena di mele e mandarini. Dagli sgabelli parte il coro di “zhu ni shengri kui le”, tanti auguri a te) e la ragazza, emozionatissima, scoppia in un commovente pianto di gioia.

Subito, la torta viene portata davanti al gruppo della nostra classe e Huang Hui si appresta a tagliarla, dando a me la prima fetta. Dopo aver distribuito con il solito ordine ogni fetta, ecco che tutto il rigore e la serietà cinese si trasforma improvvisamente in una tipica scena da film, in cui pezzi di torta, panna montata e frutta iniziano a volare da una parte all’altra del piazzale, accompagnati da urla, risate e vari cori di auguri. Negli schieramenti dei lanciatori di torta, a mia grande sorpresa, erano coinvolti anche professori e soldati, il cui viso era ricoperto di crema e praline e il cui sorriso ricordava tanto quello dei bambini che si rotolano nelle vasche di palline colorate che ci sono in alcuni Mc Donald’s.
E’ stato davvero sorprendente vedere come, dietro alla loro espressione rigida e severa, possa nascondersi anche questo lato amichevole e complice, nonostante il quale riuscivano comunque a mantenere il solito rispetto da parte di tutti gli alunni.
Il giorno dopo, ossia l’ultima mattina del campo militare, c’è stata l’ennesima cerimonia alla quale, questa volta, hanno potuto assistere anche i genitori. Durante questa cerimonia, ogni classe ha mostrato i risultati di una settimana di intenso allenamento e, una schiera di professori e soldati nei panni di giudici, ha collaborato per stilare una classifica delle nostre performance. Al termine della cerimonia è stato annunciato il verdetto e, con grande soddisfazione per alunni, soldati e professori, la mia classe ha conquistato il primo posto. Tutti i miei compagni erano davvero felici e pure io mi sono sentita particolarmente coinvolta ed emozionata.
In più – altra grande sorpresa che non perderò l’occasione di sottolineare ripetutamente a mia mamma, una volta tornata in Italia – ho vinto il premio per il “letto più ordinato” del junxun. Insomma, un grande carico di soddisfazione e felicità. In quel momento mi sono proprio sentita felice: felice per i risultati e per l’esperienza del campo militare, felice di non essermi tirata indietro e, soprattutto, felice di essere in Cina e di capire davvero cosa significa vivere a contatto una cultura così strana e complicata.

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Venezuela

Cosa sappiamo in Italia di questo paese? Praticamente niente, quando ho fatto la scelta di mettere nella lista questo paese è stato praticamente per curiosità, non si sente mai parlare del Venezuela, di informazioni nei libri ce ne sono davvero poche, in internet devi cercare a fondo per trovarne. Alla fine se ci penso sono arrivata qui non sapendo praticamente niente su questo paese e le informazioni che avevo non erano del tutto vere, conoscevo solo la posizione geografica.
Venezuela? non si puo dire che sia il paese perfetto, ha i suoi problemi ma ha anche i suoi pregi. Ma indipendentemente da tutto mi sta piacendo molto. Prima di tutto la gente, il pregio piu grande di questo paese sono le persone, il loro spirito, tutti che siano ricchi o siano poveri, che sia gente per bene o delinquenti, tutti ma proprio tutti sono felici o per lo meno cercano di esserlo.  Quando vedi che anche le persone piu povere che vivono in una baracca, sono sorridenti per la strada, cantando e ballando con quello che hanno, rendono felice anche te! Per esempio l’altro giorno nella mia scuola è andata a fuoco la mensa, per fortuna non c’era nessuno perche era pomeriggio, io vedo del fumo uscire dalla cucina mentre mi allenavo con la mia squadra di pallavolo, ma tranquillamente abbiamo pensato “maledizione! avranno bruciato las empanadas”! Ma poi quando abbiamo visto che usciva fuoco siamo corsi tutti a prendere acqua e estintori e abbiamo aiutato a spegnere l’incendio. Finito tutto abbiamo iniziato a riderci sopra, a cantare e a festeggiare che non era successo niente di grave. E non solo noi ragazzi ma tutti fino alla preside della scuola!Se si dice che noi Italiani ci sappiamo arrangiare, i Venezuelani lo sanno fare meglio! Esempio: bisogna andare in 20 a giocare una partita in un’altra scuola, come fare? Semplice: si chiede un pick-up a qualcuno e ci si carica in 20 nel bagagliaio – quello aperto – del pick-up! Semplice, divertente e rinfrescante! Nella scuola non c’e tutta la burocrazia fastidiosa che c’e in Italia, manca un professore si esce prima senza bisogno della firma dei genitori!
La benzina è praticamente gratis, con meno di 20 centesimi si fa il pieno!
Per colazione non aspettatevi cappucino e brioche o una fetta di torta con un bicchiere di latte! La mattina si mangia salato, principalmente un bicchiere di succo fresco con una arepas, aguacate, uova, formaggio e proscitto!
Quando saluti un parente che è piu grande di te devi chiedere la benedizione, e loro chiedono a Dio che ti benedica! Però non pensate che siano religiosi, anzi molti credono in Dio ma quasi nessuno ha fatto la cresima e quasi nessuno va messa, ma nonostante questo tutti hanno fede.
La natura: semplicemente indescrivibile! Ci sono paesaggi di tutti i tipi: dai paesaggi tropicali, alla selva, ai fiumi, le cascate, le montagne, il deserto, i laghi e la pianura. Io vivo nella pianura che si chiama los llanos, e tutte le mattine vedo un paesaggio meraviglioso mentre vado a scuola! La spiaggia e meravigliosa, sono rimasta innamorata, la sabbia bianca e sottile, l’acqua trasparente e calda, le palme altissime e sottili, le stelle marine giganti, i coralli e i pesci colorati. Le altre zone devo ancora visitarle ma per farvi un idea della gran sabana guardate il film “UP” che e ambientato proprio in questa zona,  che andro a visitare in gennaio con AFS!
La musica: si ascolta musica appena e possibile. musica di tutti i tipi ma principalmente latino americana e venezuelana, e sopratutto si balla! La salsa, il merengue e molte altre danze. Alle feste e impossibile annoiarsi, anzi qui sì che sanno festeggiare!
L’unico problema che rende questo paese “imperfetto” e la mancanza di sicurezza. Di sicuro non puoi camminare sulla strada da solo, o non puoi andare per strada con il telefono in mano e ricoperto di gioielli se no è molto facile che ti derubino, ma questo problema lo si puo risolvere evitando di portarsi dietro troppe cose e se vuoi uscire e stare tranquillo ci sono i centri commerciali, i locali, le discoteche, le urbanizzazioni (sono come dei quartieri dove per entrare devi avere il permesso di uno dei residenti)! Principalmente ci si ritrova nelle urbanizzazioni dove puoi stare tranquillo con i tuoi amici.
Nel paese c’e tanta poverta, ma anche tanta ricchezza! E vi assicuro che qui alle persone non importa se hai i soldi o non li hai, qui tutti cercano di aiutarsi, tutti si sentono venezuelani e sono fieri di esserlo, non ci sono divisioni fra di loro, sono davvero uniti, tanto che anche io mi sento gia una di loro!
Io consiglio quest’esperienza a tutte le persone che vogliono vivere a pieno la esperienza, che vogliono vedere com’è davvero il mondo al di fuori di Varese, io sto imparando molto, e ho realizzato molte cose di cui sapevo l’esistenza ma non pensavo fossero davvero cosi. Questo paese mi sta dando molto, mi sta dando molte gioie, soddisfazioni che non avevo mai avuto prima, mi sta dando certezze e mi sta facendo crescere, mi sta facendo divertire.
Venite tutti in Venezuela che è qui la festa!

Sara, classe IV del Liceo Linguistico “Manzoni” di Varese, Anno Venezuela 2011/12

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Repubblica Dominicana è…

Sembra ieri quando mi trovavo completamente disorientata in un’aula della Bocconi; e adesso sono dall’altra parte dell’oceano da ormai quasi 4 mesi.
Mi chiamo Arianna e in questo momento sto facendo un programma annuale in Repubblica Dominicana.

Quando mi chiedevano dove dovevo andare o anche adesso quando vedono dove sono, il commento spontaneo è ‘ WOOOOOOWWWW chissà che bello andare tutti i giorni in spiaggia!’ Ebbene, NO! Io per esempio vivo in montagna, nel centro esatto dell’isola.
Fare una settimana di vacanza in un gran hotel qui è come vedere il Colosseo e dire di aver visto l’Italia.
La Repubblica Dominicana non è mare-spiagge-merengue; è molto, molto di più.
República Dominicana è tante cose; è trovarsi gente sconosciuta che ti abbraccia per salutarti come se ti conoscesse da una vita, è non avere l’acqua calda in molte case, è a volte non avere nemmeno l’acqua corrente, è musica a tutte le ore del giorno e della notte, è corrente che spesso non c’è, è la bellezza infinita e piu’ svariata dei paesaggi dalla costa alla montagna, è le case molto spesso disordinate, è ballare sempre e comunque, è cibi completamente nuovi mai visti prima, è comprare cibo in un baracchino per strada, con sotto un cane randagio che aspetta che cada un pezzetto di carne per guadagnarsi la giornata,  è il caldo tutto l’anno, è la gente che degnamente con il sorriso sulla bocca fa la fame, è dover rimparare a scrivere in corsivo in quanto nei primi anni di scuola ci sono ore e ore di ‘calligrafia dominicana’ , è imparare una storia di lotte, colonialismo, razzismo, dittature e infine indipendenza democratica traballante, è cantare ogni mattina un inno nazionale che ormai so meglio di quello italiano, è non poter esporre la propria personalità esterna dovendo portare per 5 giorni alla settimana un’uniforme che ti rende letteralmente uni-forme, è i disperati per strada pazzi e denutriti, è le case sempre aperte, è la gente che si affeziona subito a te, è sentirsi dire ‘ questa è casa tua’ ogni volta che entri in una casa, è la pioggia che blocca ogni tipo di attività umana, è il Natale che inizia a metà ottobre, è il perenne ritardo delle persone, è la calma di affrontare la vita ,ben diversa da quella italiana, è sentirsi chiamare ‘bianca’ o ‘americana’ dalla gente per strada, è imparare uno spagnolo che non è spagnolo, ma è Dominicano, è sentire gente che si discrimina per il colore della pelle all’interno dello stesso popolo e aver voglia di ammazzarli tutti, è poter pagare la volta dopo se non hai abbastanza soldi nei negozi, è il tempo che passa troppo veloce e il solo pensiero che pochi giorni dopo Natale sarò già a metà della mia esperienza mi manda in semipanico.

Non è tutto facile, anzi, all’inizio niente è facile. Ci sono davvero tantissime cose diverse, a cui con il tempo finisci per abituarti, anche a quelle più impensabili.
Come in tutte le cose, poi puoi essere ‘fortunato’ e esserlo meno. Intendo che se finisci in una famiglia ricca o comunque benestante che vive a Santo Domingo o in Santiago ( la seconda capitale ), probabilmente il famigerato shock culturale potrà essere molto più lieve che se finisci in una cittadina piccola magari dell’interno.
Devo però dire, e di ciò sono ogni giorno sono sempre più convinta, che il tuffo nella vera cultura dominicana si fa molto di piu’ nelle famiglie di ‘ceto-medio’ e nelle piccole cittadine: si impara davvero come, pur in mancanza di qualcosa, si riesce ad andare avanti inventandosi una soluzione.

Certo, l’inizio è davvero difficile, molto piu’ di quello che ci si aspetta. Malgrado tutte le attivita’ pre-partenza sulle aspettative, ognuno sempre si fa i suoi “viaggi”, e quando la realtà si rivela differente, ti sembra già di poter sputare giudizi. Dal momento che l’ho fatto anche io, adesso posso dire di essere contenta delle mie difficoltà iniziali, e di aver aperto la mia mente ai cambiamenti.
Voglio raccontare la realtà nuda e cruda di questo Paese, dove spesso la tecnologia non arriva in tutto, dove uno straniero ha bisogno di mesi per innamorarsi per davvero di questa terra.

Se mi chiedessero perché ho scelto la Repubblica Dominicana non saprei rispondere esattamente. Per me era la quarta scelta dopo 3 Paesi del nord Europa e sinceramente non avevo preso minimamente in conto il fatto che mi potesse essere assegnato un programma qui.
Forse anche io, come la maggior parte delle persone, ero attratta dal trinomio mare-spiaggia-merengue, ma adesso sono contenta di poter scoprire e raccontare il lato nascosto di questo Paese, il lato che in troppi pochi conoscono.

Penso a voi, ragazzi che avete passato la prova d’idoneità per verificare se siete pazzi, e quindi adatti a questa esperienza, o meno. Sicuramente molti di voi sanno che vogliono fare il salto nel vuoto, buttarsi in un’esperienza irripetibile come questa, ma non sanno ancora dove vorrebbero andare. L’unico ‘consiglio’ che mi sento di dare è di leggere tutto ciò che potete di ogni singolo Paese, e non partire subito solo con le solite mete ambite da tutti (che non c’è bisogno di menzionare).
Io sono in uno dei Paesi ‘strani’ e ne vado fierissima, inciterei fino alla morte tutti i ragazzi a provare a buttarsi in esperienza diverse, scegliere i Paesi più strani che ci sono nell’infinita lista!
Provate ad immaginare (troppo in anticipo) un ritorno in Italia con un bagaglio culturale immenso su un Paese che nessuno conosce, poter dire di aver fatto davvero un’esperienza unica: è immensamente interessante o sbaglio?

Un caldissimo in bocca al lupo a tutti dalla caldissima Repubblica Dominicana! 🙂

Arianna, classe IV del Liceo “M. Curie” di Tradate, per un anno in Rep. Dominicana

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Danimarca, atto secondo

Qui in Danimarca tutto mi sembra così strano a volte, soprattutto all’inizio, non mi sembrava vero di poter essere così indipendente: sia a scuola che nella vita di famiglia e sociale. A scuola vado dal lunedì al venerdì e funziona come una specie di università perchè ad esempio alcuni giorni ho tutte le lezioni, altri soltanto la metà ed altri ancora capita che io sia libera. Qui in Danimarca durante le lezioni si discute molto e si fanno molti lavori digruppo; il rapporto con i professori è molto informale e poi – cosa stupenda – posso usare il pc!!!!!!!!!

Le famiglie danesi, per la maggior parte, sono numerose, si mangia presto, si fa tanto sport e durante la cena si chiacchiera molto. La mia famiglia mi concede molte libertà e i miei genitori mi danno tanta tanta fiducia che io ovviamente ricambio rispettando le loro regole. La mia famiglia è molto collaborativa, ci aiutiamo a vicenda ed è sempre bello sapere che c’è qualcuno su cui puoi sempre contare soprattutto per i primi mesi dove di amicizie se ne hanno proprio poche. Per quanto riguarda i rapporti di amicizia, devo dire che i Danesi sono un po’ diffidenti all’inizio, devi essere tu a cercarli, a far vedere che ci sei, che sei al mondo, poi quando iniziano a conoscerti meglio e a sapere che si possono fidare, beh sono degli amici fantastici. Qui in Danimarca i ragazzi che frequentano le scuole superiori, oltre ad andare a scuola, hanno tutti un lavoro: spesso si tratta di un posto in uno dei numerosi supermercati presenti nella città.

I giovani danesi, oltre ad impegnarsi molto nella scuola e nel lavoro, sanno anche divertirsi come dei matti: vanno alle feste, vanno a ballare e soprattutto bevono tanto tanto (p.s. “una delle lezioni di vita è riuscire a portare a casa un amico ubriaco” – questo mi è stato detto da mio fratello e devo dire che la situazione si è ripetuta più volte).

La lingua danese non è per niente facile, ma devo dire che dopo quattro mesi capisco quasi tutto e riesco a comporre qualche frase di senso compiuto.

Spero di aver toccato i punti essenziali anche se è difficile perchè avrei un milione di cose da raccontare…

Ora vorrei dire qualcosa a voi ragazzi pazzi che volete partire per un anno: se fate una scelta come questa dovete esserne convintissimi; non prendete questa esperienza come un gioco, perchè non lo è, è qualcosa di molto bello ma anche difficile, ma sono sicura che i nostri volontari vi sapranno preparare bene come hanno preparato noi. Altra cosa, non scegliete un Paese per la lingua (vedi U.S.A.): Intercultura non è uno scambio a scopo linguistico, tutti i Paesi del mondo danno tanto, ti rubano il cuore e durante l’esperienza la lingua non è lo scopo principale della permanenza. Io sto imparando ogni giorno qualcosa della Danimarca, sto prendendo tanto dalla Danimarca e lascerò il mio cuore in Danimarca. Perchè ora ho una vita sociale, una famiglia, dei compagni di classe, insomma, ho una parte di me che vivrà per sempre qui, come se da luglio in poi vivessi in due vite diverse contemporaneamente. Non potrò mai scordarmi della mia Danimarca.

Buona fortuna a tutti e un saluto a tutti i volontari.
Sara Perucconi, centro locale di Varese

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