Alessandro Querci “La fine dell’arte3: A.D. MDCLXXVI”

Incredibile…. il mese scorso in Friuli…. stavo rovistando tra i ruderi e quel poco che rimaneva di una vecchia casa appartenuta ai miei antenati, sulle Grave del Tagliamento, nel fondo di Via Saletto a San Martino…e ho trovato un piccolo baule, con dentro vecchie carte e codici ormai quasi illeggibili.

Il manoscritto meglio conservato è una EPISTOLA del 1676, scritta da un certo pittore Querci Alessandro da Poggio Bustone e indirizzata ad un suo amico friulano di nome Sergio!…Quasi sicuramente si tratta di un mio omonimo progenitore, casualmente anche lui pittore, di cui avevo vagamente sentito parlare, ma che questo prezioso documento ne conferma oggi l’esistenza.

Nè del pittore Alessandro da Poggio Bustone nè del pittore Sergio da San Martino al Tagliamento, che si sappia, esiste oggi traccia del loro operare artistico…a parte questa preziosa Epistola, dalla quale si evince che anche allora si parlava di un’arte contemporanea corrotta e depravata….che era quella del Caravaggio e del Bernini… (alla faccia del governo!….si fa per dire)
Qui pubblichiamo integralmente, per la prima volta, questa preziosissima, attualissima e inedita Epistola sull’Arte” del 1676.

Poggio Bustone, AD MDCLXXVI
Caro Sergio,
ti scrivo onde informarti che mi sono spostato dalla città di Anagni, dove come sai vivevo da pochi anni, a causa di alcune incomprensioni sfociate in aspri diverbi con eminenti rappresentanti della Curia.
Ho trovato un luogo di elezione e ristoro spirituale a Poggio Bustone, un piccolo e modesto paese nei pressi di Rieti.
Questo paese è stato santificato dalla presenza del Santo Francesco, ove ha dimorato in un eremo tuttora mèta di pellegrinaggio, ed ivi è stato fondato un convento di Frati, ove ho trovato umile ospitalità, riposo per le mie non più giovani membra e molte occasioni di preghiera.
C’è molto da affaccendarsi in questi giorni, fervono i preparativi per l’annuale Festa del Perdono, che si tiene puntualmente il secondo dì d’agosto.
A causa di ciò, Dio abbia sempre in grazia questi Fratelli Devoti, mi è stata commissionata una Pala Votiva, che ritragga il Santo che predica agli uccelli.
Mi accingo quindi a misurarmi e prendere da esempio dal Giotto di Bondone, che più e meglio d’ogni altro seppe fornir insuperato e fulgido esempio.
Ho trovato non poche difficoltà a reperire una buona polvere di gesso per realizzare una degna imprimitura. Ad Anagni, al contrario, grazie alla fitta attività di commissioni operate dallo Stato Pontificio, non avevo difficoltà a poter disporre del finissimo gesso di Meudon e colle e vernici di alta qualità.
Ma in compenso qui al Poggio dispongo dell’ottimo tuorlo delle galline locali che ben si lega alle paste delle mie tempere, che ancora reco con me fin dai tempi dell’ormai lontano soggiorno Romano.
Oh, qual dolore e mestizia al ricordo di quel luogo, un tempo cuore dello Spirito Santo e della Scienza dei Grandi Maestri.
Che strazio assistere, nel corso dei lunghi anni, alla decadenza dei costumi e della Tradizione della quale Roma era la fièra culla.
Ricordo ancora i pròdromi, quei primi funesti segnali di rovina e declino, nello scompiglio portato da quel giovinastro sceso dalle terre del nord, sfuggito ai miasmi della peste che corre voce ancora imperversi in quelle piane malsane.
Il Merisi, quell’iracondo elemento, facile alla rissa, frequentatore di postriboli di malaffare e al contempo ipocrita ruffiano, tanto che riuscì appena arrivato ad entrar nelle grazie di quel pomposo Cardinal Dal Monte, che non lesinò la sua influenza nei salotti delle Corti onde procurargli prestigiose commissioni.
Rammento come fosse ancora davanti al mio sguardo, lo scèmpio operato sulle Sante figure di Pietro e Paolo in Santa Maria del Popolo e con esso lo scherno irriverente riguardo ai Sommi Insegnamenti dei Maestri.
Ricorderai anche tu il nostro sconforto, quando non lo sgomento, nell’assistere all’affissione di quella porcheria che pone in primo piano il fianco del cavallo come esibito in una stalla, o peggio ancora, pronto al macello. E che dire del Santo accasciato in guisa di giovinetto inebriato dal troppo vino, in una posa che non esiterei a definire lasciva.
Oh quelle facce dei pretuncoli effeminati! Come giubilavano, con le loro risatine mal trattenute, talvolta abbassando lo sguardo, talaltra sgranando le orbite di fronte a quell’ignobile spettacolo.
Lasciamo perdere il fatto, ormai considerato nòrma in spregio alla Tradizione, della pittura diluita nel vischioso olio di lino, già ampiamente denigrata dal Maestro Buonarroti da Firenze in quanto infida, corruttibile, sempre riaggiustabile in ogni suo stadio – circostanza che porta a perdere memoria del progetto istituito dal disegno, solida base imprescindibile d’ogni buona opera.
Giàh! forse che il Merisi da Caravaggio ha mai mostrato un disegno? Lui, che dipinge direttamente sulla tavola, o ancor peggio, sulla tela – altro spregevole e molle supporto – seguendo nient’altro che la futile ispirazione del momento.
Anzi, molto di peggio, facendo misera copia senza apportar correzione della Virtù dell’intelletto – dono Divino dato all’uomo onde elevarsi dalla bestia, per riprodurre il semplice accidente da cui è colpito l’occhio.
E anche male, per giunta, visto il contrasto di luci e d’ombre che sembra non abbiano altro scopo che destare sgomento e far breccia nello sguardo con abili quanto detestabili trucchi.
Ah, ma ci si fosse limitati solo a questo. Giacchè, in virtù del vero Merisi derideva e recava duplice e ingiurioso delitto alle figure ritratte: in primo alla Santità del Personaggio, in secondo alla Tradizione istituita nei secoli dai Maestri.
A poco servì che l’onorata Famiglia Lelmi rifiutasse l’opera che aveva commissionato, forse sperando in una Spirituale Sintonia con gl’intenti del timorato Cardinal Borromeo, scandalizzati dall’oltraggio operato ai danni dell’Immagine della Santa Vergine Maria, ritratta livida, molle e gonfia e colle gambe orridamente scoperte. Non stupisce che corresse voce che il Merisi avesse adoperato per la sua malata ispirazione il cadavere immondo di una prostituta ritrovata nel Tevere.
Ormai la malattia dello Spirito si era già profusamente diffusa e a poco servivano le voci di chi si scagliava contro il malcostume di una spregevole moda che sarebbe divenuta, da lì a poco, imperante.
Ti ricordi come noi venissimo relegati a un ghetto, considerati superati – come se la Grande Arte potesse mai venir superata da qualcos’altro – e quanto, di giorno in giorno, di anno in anno, le commissioni scemassero, la gente arrivasse a toglierci il saluto ed anche i portatori di tonaca – lestofanti arricchiti in cerca di temporanea fama – ci scansassero.
Certo molti dicevano, come parlassero di nascosto, che il nostro fare era buono, che la Maniera era la più appropriata, ma che i ‘tempi’ fossero cambiati e che al fine di ottener facili compensi, gradimento e lode mondana occorresse allinearsi al nuovo costume, ai nuovi usi.
Tutti noi si diceva, lo ricorderai, che si trattasse di una moda passeggera, che sarebbe svanita alla luce del Giusto e Sempiterno Valore come l’umida e molle coltre che ammanta il prato alle prime luci dell’alba.
Ma così non fu.
Anche l’architettura, di lì ha poco, avrebbe testimoniato di quel tramonto della Cultura, per inoltrarsi nella notte dell’infamia.
Arrivava da Napoli, anch’esso precoce raccomandato presso l’infausto Cardinale Scipione Borghese, e non tardò anch’esso a far scempio del buon senso, anzi facendo sembrare il Merisi un povero pivello, tanta e tale era la sua protervia e tronfia alterigia.
S’incominciarono a vedere un turbinar di forme molli, come impazzite in un gorgo delirante, futili policromie di marmi costosissimi e totalmente fini a sè stessi.
Come non vi fosse più un Ideale, una Regola Esemplare – quella che dalla Magna Grecia si era conservata nella Roma Imperiale ed era stata custodita e fatta rifulgere dai Maestri Fiorentini, degni Eredi dei loro Maestri. Ricordi anche tu la grandezza dell’Alberti, del Michelozzo, del Sangallo e del Brunelleschi, forse di tutti il più dotto.
Bernini, che brucerà assieme alla sua combriccola fra le fiamme dell’Inferno, più di tutti ha osato vituperare l’Opera dei suoi predecessori fin’anche a lanciare la sua bestemmia all’interno della più Sacra delle Cattedrali, progettata dal Buonarroti con la somma e austera forza che ha contraddistinto la sua Fede e il suo Operato, forse l’ultimo dei Grandi Eredi della Tradizione.
Nonostante oramai fossi scoraggiato ed avvezzo alla malaparte, non potei reggere alla blasfemia delle più moderne orrendezze del Bernini.
Quella Santa Teresa mostrata in guisa di meretrice nel pieno del godimento dei sensi più reprobi, dove non esiste più senso della scultura ma puro effetto scenico, teatralità fine a sè stessa, tutto pur di stupire gli stolti che a Roma imperversano fra gli strusci dei salotti e nelle corti inflaccidite dal malcostume
Ricordi quei panneggi, che non cadono armoniosi dando struttura alla forma come la regola insegna, ma che si contorcono in vortici e volute che meglio ricordano le fiamme dell’inferno.
L’oltraggio a cui assistetti nella Cappella Alberoni presso la Chiesa dedicata al Santo Francesco, che Dio abbia Pietà delle nostra miseria, fu la goccia che fece traboccare il vaso.
La Beata Lodovica, ancora una volta, fu messa in spregio volgare dall’insolenza del napoletano. La Santa, ancora una volta raffigurata come baldracca (che il Santo Cristo mi perdoni l’espressione impropria ed avventata) al culmine della sensualità terrena sull’alcova, l’espressione distorta dal ghigno lascivo, il panneggio ancor più contorno ed irreale, che rammenta ben altre e diverse animalesche contorsioni.
Fu allora che, ormai vecchio e non più in salute, trovai ospitalità presso la Badia di Santa Maria della Gloria ad Anagni, grazie all’intercessione misericordiosa di un Frate Florense.
Ma invecchiando, anch’io son diventato più intransigente e riottoso, e non ci volle molto che ebbi a che ridire con alti Prelati nelle grazie Papali.
Perdona il mio sfogo, caro Sergio, ormai non mi rimane più molto da vivere e ringrazio la Misericordia del Signore per ogni giornata che riesco ancora a spendere in Sua Gloria.
Il mondo che noi abbiamo contribuito a mantenere ed onorare, ahimè, è finito, e più lieto sarà per me il trapasso a miglior vita.
Intanto, Grazie a Dio, continuo ad lavorare nel Nome del Signore, e questa Pala dedicata a Francesco credo che mi verrà proprio bene e lascerà degno ricordo del mio fare.
Che Dio ti conservi nella Sua Grazia

Querci Alessandro da Poggio Bustone

6 pensieri su “Alessandro Querci “La fine dell’arte3: A.D. MDCLXXVI”

  1. Sen non è uno scherzo, (queste omonimie sono un pò sospette), questo documento è cosa veramente eccezionale!!!
    Trovo che sia notevole la lucidità di visione di questo A. Querci,ed entusiasmante lo sdegno! concordo con lui quasi in tutto! anche perchè nel 76 parlava,dopo 50 anni di caravaggismo, per bernini poi, dopo 3 secoli, la penso come lui.
    Quindi aveva ragione.
    Eppure ha torto.
    Non so se è chiaro ma a quest’ora di più non posso magari ne riparleremo.

  2. aveva ragione, e anche torto.
    Tutto è molto relativo.
    Chi dispone della verità si faccia sotto.

  3. Ciao Sergio, e’ da molto che non ci sentiamo,seppure non lascio commenti seguo sempre con interesse il tuo blog. Tu sai che non amo scrivere, pero’ultimamente ho trovato molto stimolante il dibattito tra te e Querci.Inoltre trovo molto acuti gli interventi di Gianfranc.Per il momento non saprei cosa dire….leggo e rifletto. Un abbraccio giancarlo

  4. Caro Alessandro….il tuo antenato pittore, magari anche tradizionalista, pero’ acuto ed eccellente scrittore.
    Grazie Giancarlo e Gianfranco per il vostro commento….

  5. Questa Epistola è una scoperta davvero straordinaria! un viaggio nel tempo che conferma la Teoria della Relatività anche nell’arte!
    E che foga! Par di vederlo, il Querci da Poggio Bustone, mentre s’infervora con gli alti prelati in difesa della Maniera contro la ‘moda’ imperante…tale e quale a certi attualissimi critici di chiara fama.

    Forse esula dagli intenti dell'”antenato”, ma lo stesso ti chiedo : se tutto è così relativo, allora a stabilir se è vera gloria possono esser davvero solo i posteri? no, vero?
    Perchè, se così fosse, mi sfuggirebbe il costrutto della critica all’arte contemporanea…

    Grazie Ale, nessun esempio sarebbe potuto arrivare con l’immediatezza e la freschezza di questa Epistola ritrovata… :-)) me la sono spassata!!

  6. Non proprio tutto è relativo, sia Giotto che Caravaggio sono stati grandi pittori e allo stesso tempo grandi innovatori, così come erano grandi pittori – anch’essi nel loro contesto – Lang Shi Ning (pittore cinese del ‘700) o il persiano Reza Abbasi attivo alla fine del 1500.
    Relativo è il nostro giudizio, che viene indebolito dai limiti della nostra conoscenza.
    I critici, pur nella loro relatività, hanno da sempre (o perlomeno dal Vasari) contribuito a fondare nuovi criteri di valutazione, ampliando il nostro orizzonte e fornendo un inquadramento intellettuale alle ‘pratiche materiali’ che si sono avvicendate nei secoli.
    Se è vero che ‘l’ardua sentenza’ viene spesso delegata ai posteri, quindi un porto sicuro ove far approdare il nostro pigro giudizio, è anche vero che essa viene in larga parte influenzata dalla lettura che è stata prodotta dai tanto vituperati ‘teorici’.
    Al contempo bisogna anche ammettere che la storia dell’arte non è mai ‘conclusa’ e definita una volta per tutte, ma è passibile di una continua rilettura critica a posteriori, e anche qui grande responsabilità è, anzitutto, dei critici e degli storici.
    Attenzione, ho scritto ‘anzittutto’, non ‘esclusivamente’.
    Insomma, l’esercizio del ‘dubbio’ è sempre saggio, ma non deve farci impantanare nella passiva delega delle nostre responsabilità.
    Quindi, oggi come ieri, dobbiamo tutti prenderci la briga di prendere posizione, da qualsiasi parte essa si voglia situare.
    E’ per questo che apprezzo Sergio, anche se spesso mi trovo in disaccordo sulle sue posizioni.

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