«A 106 anni, vi racconto la Grande Guerra»

In occasione del 4 novembre Delfino Borroni, classe 1898, ex bersagliere oggi cieco ricorda la sua Caporetto

«Non avevamo più munizioni nè rinforzi, da dietro non ci arrivava più nulla. In compenso, un intero battaglione di tedeschi era scatenato all’attacco e minacciava di accerchiarci. Avevamo centinaia di prigionieri con noi, che avevamo catturato il giorno prima… Il pomeriggio del 25 ottobre siamo dovuti fuggire a gambe levate da Caporetto». Delfino Borroni ha centosei anni. Ma ha ancora molta voglia di raccontare le sue avventure di soldato della Grande Guerra, quella di cui oggi si celebra la conclusione, vittoriosa per l’Italia e le potenze alleate, ma disastrosa per l’Europa. Oggi vive nella Casa di Riposo San Giuseppe di Castano Primo (MI). Nato il 23 agosto 1898 a Turago Bordone (PV), per 38 anni, dopo la Grande guerra, è stato macchinista sul Gamba de Legn, il tram che univa ai tempi Castano Primo e Magenta con Milano. Cinque sorelle e tre fratelli, si è spostato a Castano nel ’25, al matrimonio, poi ha avuto figli, nipoti e pronipoti. 

«Fui mandato di pattuglia, in retroguardia. Andare di pattuglia mi faceva battere forte il cuore, c’era in qualsiasi momento il rischio di essere accerchiati, noi ci andavamo a squadre, i nemici a plotoni interi – prosegue Borroni -. Solo la trincea era un riparo sicuro. I tedeschi ci sparavano mentre ci nascondevamo dietro dei mucchi di terra. Nella fuga io sono caduto e ruzzzolato giù, fingendo di essere morto, poi sono riuscito a riprendere la strada della montagna e raggiungere il mio reparto, dove ormai mi davano per caduto. Ero ferito al tallone, zoppicavo, il mio maresciallo poi mi disse: "Nessuno sarebbe riuscito a salvarsi da lì, solo un vero scoiattolo come te poteva farcela!"». 

La Storia si dipana nel racconto di chi l’ha vissuta, mentre le emozioni e i ricordi fluiscono rapidi e sicuri in quest’uomo, cui l’età ha tolto la vista ma non la lucidità. «Un giorno ci caricarono in treno e ci spedirono a Caporetto – ricorda ancora il reduce della prima guerra mondiale -. Era il 23 ottobre del 1917: il giorno dopo gli austro-tedeschi attaccarono in forze e sfondarono, e noi, dopo aver pure preso dei prigionieri, tra cui, ricordo, un ragazzino di diciassette anni appena, classe 1900, che si arrese a me, fummo costretti a ritirarci aprendoci la strada in qualche modo, nel caos più totale, fino a Cividale, e fermandoci di tanto in tanto ad opporre resistenza. Poco dopo Cividale ci presero, il capitano e l’attendente erano stati colpiti durante un combattimento sul greto in secca di un torrente. Ci guardavano cattivi. "Ma bravi" ci dicevano, "prima ci sparate poi ci dite Gut Kamerad?"»

Da lì la prigionia, prima a Cividale, poi in Austria. «Andando verso l’Austria, a piedi, ripassammo per Caporetto. Uno scenario di morte e distruzione. Cadaveri di italiani, austriaci, tedeschi. In Austria, la fame per tutti, l’odio, ci chiamavano Schweine, maiali, anche se è vero che alcuni dei nostri non si comportavano bene. Gli austriaci stessi avevano ben poco da mangiare. Per fortuna ci rimandarono in Veneto a scavare trincee – tutti i loro uomini ancora validi erano al fronte – e lì perlomeno ce la si cavava con un po’ di frutta rubacchiata qua e là. Un anno intero, dopo Caporetto, hanno campato gli austroungarici sui depositi della sussistenza catturati all’esercito italiano!»

Poi la fuga, avventurosa e picaresca, da Vittorio Veneto, poi da Conegliano, subito dietro le linee austroungariche, negli ultimi giorni di guerra. «Fuggimmo perchè gli austriaci noon avevano più niente, non ci avrebbero più dato neanche da mangiare. Camminammo fino in Friuli, ricorderò sempre i contadini, una signora a Spilimbergo mi prese a darle una mano con un po’ di lavori e mi diede un bel pezzo di polenta, le dissi: "Giuro che con questa ci campo due settimane…"».

In centosei anni Delfino Borroni si è visto cambiare attorno il mondo in modo incredibile. C’è qualche ricordo, al di là della guerra, che ancora lo colpisce. «Le biciclette erano una rarità e un lusso, quand’ero ragazzo. La gente faceva i chilometri a piedi per andare a lavorare. La carne si mangiava nei giorni di festa: per il resto si mangiavano zuppe, latte, riso, le minestre… magari con le rane, che acchiappavamo nelle risaie a costo di prenderci qualche schioppettata. Erano così buone, le rane nella minestra come le faceva mia mamma Giuseppina». E Pinuccia è anche il nome di una delle figlie del signor Borroni.
La cosa davvero paradossale è che il signor Borroni fu ferito più gravemente nella Seconda Guerra Mondiale, in cui era civile, che nella Prima in cui era stato soldato. «Sì, fui colpito mentre guidavo in un bombardamento aereo alleato… Cercavano di abbattere tutti i ponti sul Ticino. Mi hanno distrutto la macchina, e ho passato trentasette giorni in ospedale. Ma era una guerra molto diversa, quella, senza trincee».

Redazione VareseNews
redazione@varesenews.it

Noi della redazione di VareseNews crediamo che una buona informazione contribuisca a migliorare la vita di tutti. Ogni giorno lavoriamo cercando di stimolare curiosità e spirito critico.

Pubblicato il 04 Novembre 2004
Leggi i commenti

Commenti

L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di VareseNews.it, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.

Segnala Errore

Vuoi leggere VareseNews senza pubblicità?
Diventa un nostro sostenitore!



Sostienici!


Oppure disabilita l'Adblock per continuare a leggere le nostre notizie.