Giallo in barca a vela, assolto Pietro Colombo

La sentenza della corte d'assise riguardante il processo per la morte di Giuseppina Nicolini, annegata in Grecia nel 2004 mentre era sull'imbarcazione dell'imprenditore-skipper

Assolto l’imprenditore accusato di aver ucciso la compagna durante una gita in barca in Grecia: questa la sentenza della Corte d’Assise di Busto Arsizio, presieduta dal giudice Toni Adet Novik (nella foto sotto) nei confronti di Pietro Colombo, visto e considerato l’art. 530 comma 2 del codice di procedura penale (prove insufficienti e o contraddittorie). Si conclude così il primo processo in Corte d’Assise presso la nuova sede del tribunale bustese. L’udienza odierna non ha avuto in pratica storia, con le parti impegnate in interventi in extremis di carattere essenzialmente formale. Due ore di camera di consiglio sono bastate per giungere all’assoluzione. L’imputato assolto ha lasciato subito l’aula subito dopo la lettura della sentenza.

Non è dunque stato Colombo a far cadere dal Delfino Bianco, la sua barca a vela, la compagna Giuseppina Nicolini da lui detta Nicoletta, la notte del 21 maggio 2004 nel braccio di mare tra l’isola di Lefkada (Leucade) e Preveza, in Grecia. Un viaggio partito come uno dei tanti di una coppia descritta come affiatata, con lei che pur non essendo esperta o appassionata di mare come lui, imprenditore gallaratese divenuto skipper, lo seguiva per il Mediterraneo. Il via da Monfalcone, tappe a Brindisi e Marina di Gouvia (Corfù). Avrebbero dovuto presto compiere insieme un giro del mondo nei programmi, invece "Nicoletta" annegò cadendo in mare, trascinata dalla corda che la legava alla barca che filava a motore a cinque nodi, e che lei stessa avrebbe dovuto governare quella notte. Nei giorni successivi il Colombo fu visto in lacrime da almeno un testimone, mentre issava la barca in secca nel porto di Marina di Gouvia, da dove era partito per il viaggio fatale. In Grecia non potrà rimettere piede perchè lo aspetta un mandato di cattura internazionale spiccato dalla locale magistratura, che aveva tardivamente riaperto l’inchiesto sull’esempio di quella italiana, facendolo anche arrestare. L’estradizione non fu concessa e non poteva esserlo, come chiarirà lo stesso pm Polizzi che aveva chiesto 25 anni di carcere per omicidio: tra Paesi UE non si può essere estradati se si è già processati in patria per il medesimo reato. 

Il processo di Busto Arsizio non ha consentito di fare piena luce sulla dinamica di quanto accadde quella notte: troppi elementi e troppe ipotesi, plausibili e meno plausibili. Per l’accusa, la verità la sapeva soltanto Pietro Colombo (nella foto). Per la difesa, nemmeno lui, che ha sempre sostenuto di essere in cabina a riposare mentre la compagna, sola, di notte e assicurata in modi su cui si è trovato qualcosa da ridire, gestiva l’imbarcazione. La corte ha preso in considerazione anche l’ipotesi dell’omicidio colposo, come eventualmente richiesto in subordine, ma anche qui non ha trovato elementi decisivi.
Le indagini condotte dal pm Polizzi sono partite dalla segnalazione di Barbara, la figlia della donna morta in mare, che scoprì un’assicurazione reciproca sulla vita da un milione di franchi svizzeri stipulata con la Zurigo dal Colombo e da sua madre. È stato questo l’elemento catalizzatore del processo, insieme alle circostanze misteriose della morte della donna. Estensive e minuziose le attività d’indagine attuate dal pm Polizzi e dai collaboratori, fino al tentativo di recuperare la barca in Grecia, frustrato dalla magistratura ellenica sulla quale Polizzi stesso ha avuto a più riprese da ridire in aula (come pure, per tutt’altre ragioni di cui sopra, l’avvocato Cicorella). Sono state condotte anche prove per la ricostruzione del fatto, con un manichino e una barca simile, ma non uguale, a quella teatro del dramma. Nulla è stato insomma lasciato intentato, neppure le intercettazioni, compiute persino tra il Colombo e il suo avvocato greco. Indizi, sospetti, dubbi e supposizioni, ma prove certe in grado di smuovere la corte non ne sono emerse. Nè è servito dipingere a tinte fosche l’imputato, che per parte sua nulla ha fatto per attirarsi le simpatie della corte, attenendosi a un rigido e dignitoso silenzio anche oggi: quando ha avuto un’ultima possibilità di parlare, l’ha rifiutata.

Il pm ha accolto la sentenza, letta alla presenza di quasi tutti i colleghi della Procura, senza eccessiva sorpresa. Per un’eventuale ricorso in appello si dovranno attendere le motivazioni. L’avvocato Cesare Cicorella, legale di Colombo, commenta con sobrietà. «Si è equilibratamente data una risposta compatibile con quanto emerso durante il processo. Per Pietro Colombo finisce un incubo, di certo non potrà dimenticare un’esperienza simile, per lui ora è tempo di recuperrare un minimo di tranquillità. È servita una verifica dibattimentale di questa vicenda, con tutte le incognite che poteva presentare, ma forse questa storia si poteva chiudere prima». Sulla vicenda resta alla fine un velo d’ombra, una serie di punti di domanda che non avranno mai una risposta chiara: la giustizia ha messo un uomo alla sbarra, escludendone infine la responsabilità, ma senza riuscire a chiarire le circostanze. Resta una domanda: come e perché è morta Giuseppina Nicolini? Resta anche un’immagine: il volto dell’imputato teso nello sforzo di restare impassibile, udienza dopo udienza, una maschera di pietra che per tutto il procedimento ha nascosto a stento il ribollire delle emozioni.

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Pubblicato il 24 Febbraio 2009
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