I detenuti: “Vogliamo sperare, non disperare”

Ospitiamo un articolo scritto dai redattori di Mezzo Busto, il giornale del carcere bustocco. Sandro e Gertian ragionano di sovraffollamento e delel conseguenze per la popolazione detenuta

Ospitiamo un articolo scritto dai redattori di Mezzo Busto, il giornale del carcere bustocco (nella foto la copertina dell’ultimo numero). Sandro e Gertian ragionano di sovraffollamento e delle conseguenze per la popolazione detenuta. Il loro articolo verrà pubblicato nel nuovo numero in uscita a settembre.


Detenuti a quota 67mila. La soglia della tollerabilità massima è stata ormai ampiamente superata, mentre diversi provvedimenti legislativi, presi negli ultimi anni, continuano ad affollare gli istituti diimmigrati e di persone che restano in cella anche per poco tempo, magari pochi giorni. Le prigioni italiane sono insomma una “bomba a orologeria” che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Lo avete già letto e sentito in ogni salsa, ma è importante ripeterlo ancora. La situazione in cui noi persone detenute ci troviamo, è al limite del collasso: celle fatiscenti di nove metri quadrati con tre, a volte quattro, detenuti stipati come bagagli in un deposito; gli arredamenti ridotti al minimo; lo spazio giusto per la latrina alla turca. Ma non è solo una questione di spazio: legate al sovraffollamento ci sono altre questioni strettamente connesse, come la scarsità di agenti di Polizia Penitenziaria e la rieducazione in queste condizioni al limite. Se vi sembra un quadro eccessivamente pessimista, alla fine di quest’articolo capirete come la realtà di oggi potrebbe portarci in breve a una vera e propria emergenza nazionale.

I DATI DEL SOVRAFFOLLAMENTO – I dati più aggiornati ci dicono che al 31 maggio 2010, a fronte di una capienza regolamentare di 44.592 detenuti, in realtà in Italia ci sono oltre ventimila persone in “eccesso”. Siamo 67.601 in tutta Italia, 9.070 in Lombardia (contro una capienza di 5.667), più di quattrocento a Busto, nello spazio pensato per la metà degli individui. In cosa si traduce tutto questo? In detenuti costretti a restare venti ore al giorno dietro le sbarre, senza lavorare, senza socializzare. È chiaro che questo porta all’esasperazione e a volte a gesti estremi: dall’inizio dell’anno a metà giugno i suicidi in carcere sono arrivati a quota ventinove e fra il 2008 e il 2009 sono passati da 46 a 72.

La colpa di questa “tragedia silenziosa” è anche e sempre più del sovraffollamento e di tutte le conseguenze che questo comporta dal punto di vista fisico e morale. L’ultima legge sull’emigrazione (la cosiddetta Bossi- Fini) ha dato il colpo di grazia a un sistema già sotto stress. Il risultato è che, a fine maggio di quest’anno, poco meno di 25mila detenuti erano stranieri, ovvero il 36 per cento del totale. Molti vengono arrestati e rilasciati nell’arco di tempi brevi: secondo i dati del Ministero della Giustizia nel 2009 (dati aggiornati al 31 dicembre 2009, ndr) il reato contro la “legge stranieri” era la quarta causa di arresto per gli stranieri dopo i reati per droga, contro il patrimonio e contro la persona. Il turn over di stranieri è molto alto e lo dimostra anche la percentuale più alta rispetto a quella degli italiani – 14% contro il 5% al 31 dicembre 2009 – di condannati con pene brevi, ovvero da zero a dodici mesi.
Leggendo i giornali, ascoltando tg e dibattiti televisivi e, soprattutto, osservando la situazione dal nostro punto di vista “privilegiato”, ci siamo convinti che ci sia una crescita esponenziale – e a nostro parere esagerata – nel ricorso alla detenzione. Crescita che purtroppo non è proporzionale alle risorse destinate ai servizi rieducativi e agli interventi sociosanitari in carcere.
A far accrescere il sovraffollamento, ha contribuito anche la legge n. 251 del 5 dicembre 2005 -detta ex Cirielli -, che comporta modifiche in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di usura e di prescrizione. In particolare, prevede una diminuzione dei termini di prescrizione e un aumento delle pene per i delitti di associazione mafiosa e usura e per i recidivi. Quest’ultima modifica ha avuto pesanti conseguenze anche per i detenuti tossicodipendenti. Oggi sono circa un terzo dei detenuti totali e continuano a crescere. Non si tratta necessariamente di spacciatori, ma nella maggioranza dei casi di persone colpevoli di piccoli reati legati alla ricerca di droga per uso personale. Vengono ammassati in celle e dentro soffrono più di tutti. I tossicodipendenti, non siamo certo solo noi a dirlo, avrebbero bisogno, invece, di cure e non certo dell’impatto violento con i luoghi di reclusione. Di questo passo non abbiamo timore a dire che il carcere diventerà una discarica sociale, non il luogo di detenzione per pericolosi criminali.

GLI AGENTI – Il carcere, però, non è popolato solo di detenuti. Ci sono gli operatori, gli educatori e gli agenti di Polizia Penitenziaria. Il sovraffollamento, che caratterizza la stragrande maggioranza degli istituti italiani, comporta condizioni di vita e lavoro difficili anche per tutti loro. Soprattutto la carenza di agenti è un altro tema dolente nel pianeta carcere. L’organico della polizia penitenziaria prevedeva nel 2001 l’impiego di 41.268 agenti negli istituti di pena, ma ancora nel 2009 risultavano all’appello 35mila addetti. Per l’amministrazione penitenziaria l’ottimale sarebbero 10mila addetti circa contro gli attuali 6mila. Anche per loro esistono quindi problemi di organizzazione da superare. Pensiamo prima di tutto alle competenze loro richieste, che riguardano sia la sicurezza sia la rieducazione. Con la riforma del 1990, infatti, la Polizia Penitenziaria è stata formalmente inserita tra gli operatori che partecipano, nell’ambito dei gruppi di lavoro, alle attività di osservazione e trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati. Il personale al limite del possibile per coprire i turni di lavoro, l’organico insufficiente e la mancanza cronica di educatori creano un contesto, in cui è difficile che la rieducazione prevalga sulla custodia.

RIEDUCAZIONETroppi detenuti, pochi agenti: il sovraffollamento non si riduce però a un semplice calcolo. Se in un carcere, come ad esempio a Busto, siamo il doppio rispetto a quelli che dovremmo essere, come si fa a mettere in campo tutte quelle attività necessarie alla “rieducazione”? La Costituzione, all’art. 27 comma 3, è chiara: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ma, dalla teoria alla pratica, qualcosa si è perso per strada: anche a causa del sovraffollamento le attività rieducative come la scuola, i corsi di formazione, le attività di volontariato non sono accessibili a tutti, perché fisicamente non c’è posto per tutti. Anche attività necessarie a chi si trova in carcere, come i colloqui con gli psicologi e gli educatori, subiscono dei rallentamenti a causa del carico sempre maggiore di lavoro che va a gravare sugli operatori (nella foto, lo spettacolo teatrale che si è svolto nel carcere di Busto).

ESISTE UNA SOLUZIONE? – Abbiamo parlato nell’articolo di tre punti, magari non fondamentali, ma di sicuro utili per cercare una soluzione a questo problema. Il Ministero della Giustizia vuole costruire nuove strutture carcerarie, ma ci vorranno tempo e denaro. Nel frattempo l’insostenibilità della situazione carceri rimarrà senza soluzione nel tempo, se non si percorrono anche vie alternative. Suonano, quindi, quanto mai fondamentali le parole pronunciate a fine maggio dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione dell’anniversario della fondazione del corpo di Polizia Penitenziaria: “Parlamento e Governo devono intervenire per affrontare l’emergenza carceri, perché è un’emergenza ineludibile”.

Perché, invece, non affrontare la questione da un altro punto di vista, ben più importante (e noi possiamo dirlo senza paura di essere smentiti)? C’è, infatti, la delicata situazione che riguarda le pene alternative alla detenzione. In Italia esistono diverse forme di misure alternative, dagli arresti domiciliari all’affidamento, ma in percentuale sono poco applicate. Non risolverebbero sicuramente i gravi problemi, ma di certo allevierebbero questa situazione. Affronteremo questo delicato tema che merita un’analisi più ampia nel prossimo numero.
Il carcere è un servizio per la società e il territorio: dalle più alte cariche, all’ultimo degli addetti servono più presa di coscienza e impegno per raggiungere gli obiettivi. L’Italia, questo nostro paese, sta affrontando problemi molto più pressanti e gravi che coinvolgono tutta la popolazione. Da “dentro” ci chiediamo, però, se e quando il problema del sovraffollamento potrà essere preso in considerazione.
 
Qui nihil sperare potest desperet nihil” (Seneca)
(Chi non ha nulla da sperare, non si dispera di nulla)
La popolazione carceraria ha voglia di sperare e non di disperarsi per un futuro migliore.

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 22 Luglio 2010
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