Lucio, fratello in Cristo degli ultimi della Terra

Drammi e umanità del Brasile nella testimonianza di Lucio Beninati, missionario laico del Pime nell'inferno delle favelas di Sao Paulo

Brasile: un nome che evoca spiagge tropicali, sole, bellezza e vivacità, ma che nasconde tanta miseria e violenza. A conoscere a fondo il "cuore nero" dell’enorme Paese sudamericano è Lucio Beninati (foto), 49 anni, missionario laico (cioè non ordinato sacerdote) del Pime di Busto Arsizio. Lucio è attivo da anni nelle favelas di Sao Paulo, città principale e vera capitale economica del Brasile, le cui contraddizioni si riassumono nel contrasto stridente fra i grattacieli del centro cittadino e le sterminate baraccopoli della periferia.

«È stata la prima cosa che ho notato quando sono arrivato in Brasile, nel ’97» dice Lucio, che ormai parla il portoghese meglio dell’italiano. «Questo  enorme divario tra la ricchezza e la miseria è il marchio distintivo di una società segnata da ingiustizie profonde». La storia di questo missionario che ha dedicato la sua vita al servizio degli ultimi della Terra è esemplificativa di quella di tanti che, come lui, ad un certo punto hanno compiuto una scelta netta, di rottura. «Vivevo a Napoli, avevo una famiglia numerosa, un lavoro, una fidanzata. Pensavo che la religione fosse qualcosa di distante dalla vita quotidiana, finchè a 21 anni non lessi "Se Cristo domani…", un libro di Raoul Follereau, soprannominato "l’apostolo dei lebbrosi". Fu una rivelazione improvvisa, di colpo intuii il profondo legamen tra la Bibbia e le vicende degli uomini, di tutti gli uomini. Così lasciai tutto e mi trasferii a Busto Arsizio al centro di formazione del Pime. Qui ebbi la mia istruzione da missionario laico e nell’88, su mia richiesta, fui inviato in Bangladesh. Laggiù ho incontrato un popolo cordiale ed ospitale, che nonostante la miseria sa essere in qualche modo più felice, più spiritualmente ricco di noi».

Nel ’94 l’addio al Bangladesh, dove Lucio aveva insegnato nelle scuole missionarie e compiuto lavoro sociale "sul campo"; dopo alcuni anni a Busto Arsizio una nuova missione a San Paolo del Brasile. «Ho trovato subito tanta emarginazione, infanzia abbandonata, prostituzione, malavita: un Paese più violento del Bangladesh». A Sao Paulo fratel Lucio si è inserito nell’associazione Cheiro de Capim (Profumo di Campo), diretta da una donna, Andrea Apostolo da Silva, e che raggruppa educatori di diverse confessioni cristiane (protestanti, petecostali, cattolici, Testimoni di Geova…) in perfetto spirito ecumenico. «Portiamo l’annuncio di Cristo nell’inferno delle favelas, e lo facciamo quasi in punta di piedi, senza fare rumore: il nostro scopo è conquistarci la fiducia di questi bambini e di questi giovani abbandonati alla strada e alla droga (si sniffano colle e solventi, si fumano il crack e il mascado, una mistura locale). Andiamo a trovarli tra le loro baracche, nei loro covi sporchi e abbandonati al degrado: li medichiamo quando ne hanno bisogno (le violenze, da parte delle gang o della polizia, sono costanti; tra le malattie la TBC è endemica, ma anche l’AIDS è un problema), li facciamo giocare, facciamo opera di alfabetizzazione, perchè quasi tutti non hanno mai frequentato la scuola. Il nostro lavoro è creare delle officine di umanità e aumentare l’autostima di questi ragazzi, che tutti odiano e nessuno vuole».

Il lavoro dei "missionari di strada" è infatti spesso ostacolato e vilipeso dalla polizia e dai cittadini "normali", che vedono in essi dei "complici" delle gang minorili che terrorizzano interi quartieri (il Brasile ha avuto il tristissimo primato delle uccisioni di minori da parte di poliziotti e guardie private pagate dai commercianti per "ripulire" interi quartieri dalla criminalità, ndr). «Più volte sono intervenuto in difesa di questi ragazzi picchiati dai poliziotti, una volta mi hanno anche trascinato in commissariato con l’accusa di offesa a pubblico ufficiale… "Non vesti e non ti comporti da uomo di Dio, non ti vergogni?" mi diceva un poliziotto». Anche a Gesù, ai tempi, rinfacciavano di accompagnarsi con prostitute, poveracci e – orrore! – esattori delle tasse.

«Di questi giovani abbandonati per strada, magari perché la madre si prostituisce e il padre, quando si sa chi è, beve o è in prigione, citando il cardinale Carlo Maria Martini dirò che non sono la parte malata della società, bensì portano il peso di una società malata. La loro vita è una denuncia contro l’ingiustizia del nostro sistema sociale, che esclude i più deboli e rifiuta di comunicare con loro. Mi viene in mente la scena sconvolgente dell’arresto di una bambina di cinque anni negli Stati Uniti, il paese eticamente e moralmente più sottosviluppato della Terra: come può una maestra d’asilo chiamare la polizia, come possono dei giovani poliziotti ammanettare una bimba? Mi sono vergognato di essere un uomo, in quei momenti. Le persone devono imparare a darsi al prossimo con amore, o scompariremo tutti: è una scelta netta per il futuro e per la vita quella che va fatta».

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Pubblicato il 29 Aprile 2005
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