L’epidemia che rimase nella storia

Tratta da una testimonianza diretta del 1630, la fedele e coinvolgente ricostruzione della pestilenza che flagellò Busto e tutto il Nord Italia

(testo a cura di Carla Castellanza)

La peste del 1630 fu un’epidemia spaventosa che infuriò nel nostro territorio con una violenza inaudita anche perché la popolazione era già stremata da una serie di guerre tremende che avevano portato saccheggi, distruzioni, violenze di ogni tipo. La carestia, conseguenza delle frequenti scorrerie di bande armate, era arrivata a livelli tali che non si riusciva a trovare cibo nemmeno pagandolo a qualsiasi prezzo e chi non aveva denari mangiava erbe di ogni sorta “contendendole alle bestie”.

La peste cominciò a diffondersi nel milanese nel 1630, colpì Saronno e da lì si estese anche a Busto, malgrado le porte Milanese e Pessina fossero presidiate e quelle di Savico e di Sciornago fossero chiuse. La credenza popolare attribuiva diverse cause alla peste: la punizione divina per i peccati del Borgo, l’opera degli untori, la natura dei tempi, i Francesi che, non potendo vincere l’imperatore Ferdinando sul campo, avrebbero sparso per le campagne pane infetto; il Lupi fu testimone del ritrovamento di tali pani in una siepe in Via Vernaca (oggi Veronca) e insieme ad altri illustri cittadini provvide a farli seppellire fuori della porta Pessina per evitare il contagio.
Secondo un’altra credenza il morbo fu portato nel Borgo da un figlio di tal Giovanni Maria Merone: il giovane, tornando dalla Valtellina, aveva portato con sé i vestiti del suo padrone, un ufficiale dell’esercito lanzichenecco morto di peste. Rimasto fuori dalle mura del Borgo perché privo della bolletta di sanità, convinse la madre ad intercedere per lui presso i Deputati di Sanità i quali, mossi a pietà, consentirono l’ingresso del giovane e in pochi giorni il contagio colpì tutta la sua casa.

“Parva scintilla excitavit magnum incendium”: il morbo dilagò in tutto l’abitato e alla fine di dicembre già si contavano decine di morti ogni giorno. Per ignoranza o per non creare panico i medici e i chirurghi non sentenziarono la peste causando in tal modo un ritardo funesto nell’adozione delle misure necessarie; si limitarono a mandare gli infetti nelle Case Herme dei soldati, dove venivano curati, medicati e mantenuti a spese della comunità.
Il contagio aumentava progressivamente con il passare del tempo arrivando al numero di quattrocentocinquanta decessi in tre mesi. Fu così ordinato di acquistare un terreno fuori delle mura, presso la Porta Basilica ovvero Milanese, “ per una parte di riponere li morti, et per l’altra di fare le capanne et baracche per gli infetti.” Questo sito fu benedetto solennemente dal signor Prevosto
Armiraglio il 12 aprile 1630 e fu dedicato a San Gregorio.
Il 18 aprile il Borgo fu messo in quarantena per ordine del Conte Claudio Rasino di Borsano e del Capitano Giovan Battista Ferraro, incaricati dal Tribunale di Sanità di Milano. Per consentire alla popolazione chiusa in casa per la quarantena di non perdere la Messa, il Prevosto decise che i venti sacerdoti di Busto celebrassero nelle strade con altari portatili ed egli stesso diceva Messa nel Lazzaretto per sua devozione particolare e per consolazione dei suoi fedeli malati.
Per implorare l’intercessione della Vergine Maria, perché si placasse il castigo divino per le colpe dei bustocchi, fu indetta una solenne processione portando per tutte le vie del Borgo la statua della Madonna venerata nella chiesa di Santa Maria di Piazza e tutti i borghigiani si unirono ai sacerdoti nei canti sacri mentre le campane di tutte le chiese suonavano a distesa.

I medici e i chirurghi chiamati a Busto fin dall’inizio dell’epidemia non trovavano cure per il morbo, anzi i loro rimedi non facevano che peggiorare le condizioni dei malati e persino alcuni di loro caddero vittime della peste.
Furono assoldati i monatti per trasportare i malati e i morti; questi erano alloggiati in una stanza presso San Rocco, generosamente stipendiati e mantenuti con vitto principesco dalla comunità, eppure erano un’ulteriore calamità per i cittadini perché ricattavano, derubavano, perseguitavano i parenti degli infetti e si facevano pagare per recitare una preghiera prima di gettare i morti nella fossa comune (compito che normalmente non assolvevano) perché non era più possibile celebrare le esequie per mancanza di sacerdoti disponibili.
Ai monatti era fatto obbligo di vestire un abito celeste e di portare un campanello che segnalasse la loro presenza in modo che il popolo potesse evitarli e non essere contagiato.
La gente era così spaventata che, se si ammalava qualche parente, nessuno lo andava a trovare né si avvicinava per prendersene cura, cosicché oltre che di peste si moriva anche di dolore e di solitudine, abbandonati a se stessi. Oltre allo strazio per i lutti, i sopravvissuti del nostro povero Borgo subirono danni economici incalcolabili; traffici interrotti e merci abbandonate causarono un grave discredito nei commerci soprattutto per le nostre attività più redditizie, quella del fil di ferro e quella del cotone o della bombasina, quest’ultima in particolare essenziale perché dava lavoro a molte persone: battilana, filatori, tessitori, garzoni, garzatrici, tintori, mercanti… Non si può dimenticare neppure il danno subito dall’industria dei “cavalieri”, ovvero dei bachi da seta, né quello arrecato dalla quarantena
all’agricoltura per l’abbandono dei campi dato che non si poteva entrare né uscire dal Borgo; erano proibiti i trasporti e i traffici con l’esterno, non c’era lavoro più per nessuno!

Molti paesi vicini, meno pesantemente colpiti dalla peste, mossi da spirito di pietà e di carità, diedero soccorso e aiuti al nostro Borgo con offerte di cibo, denari e materiali per la cura degli ammorbati.
Il primo a soccorrere fu Federico Borromeo, Cardinale Arcivescovo di Milano, che aveva già inviato a Busto il suo illustre medico di fiducia, il signor Mongilardo, per organizzare gli interventi sanitari. All’inizio di giugno si iniziò a bruciare gli abiti degli infetti e a disinfettare le loro case con il fuoco e la calce. La devozione alla Beata Vergine e verso i Santi si tradusse nel voto dell’intera comunità, religiosa e civile, di andare ogni anno in pellegrinaggio alla Madonna del Monte il giorno di San Giorgio, il 24 aprile, e di rendere insieme omaggio al corpo della Beata Giuliana di Busto.
Il 15 febbraio 1631, sabato, Busto fu liberato dalle limitazioni alla sua libertà di territorio e il mercoledì 26 fu fatta una processione per ringraziamento, cui parteciparono tutti i borghigiani, processione che fu ripetuta il 5 marzo. Il nostro autore prorompe in una preghiera sublime alla Madonna (che sarà poi chiamata “dell’Aiuto”), la protettrice dei bustocchi, che ben conosce le nostre debolezze, ma che mai ci abbandona: “O Vergine, Vergine delle vergini, voi sapete pure che questo popolo è tutto acceso nella vostra divozione, è tutto divoto delle vostre sante grazie, è tutto infiammato del vostro santo nome, non sa altro che dire: ‘Vergine e madre di misericordia, madre di bontà, madre di pietà e madre di tutte le gratie’. Se voi volete, come volete; se voi potete, come puotete, li darete spirito di ben operare, forza di perseverare, costanza di mantenersi, dono e gratia di lasciare la mala vita passata, di vita nuova sempre vivere, di abbracciare le virtù, attendere all’opere sante, esercitarsi nello spirito, dar di banda al Diavolo, al mondo et alla carne, correre a briglia sciolta al pallio del Paradiso, all’avanzo della gloria eterna, là dove regneremo perpetuamente.
Ecco donque, o Maria, mare immenso di tutte le gratie, tutti insieme unitamente a te ricorriamo, te vogliamo, nelle gratie de tuoi favori si mettiamo, nel tuo grembo riposiamo, nelle viscere delle tue misericordie confidiamo, dicendo sempre et del continuo: ’Magnificamus te, sancta Dei genitrix, quia ex te natus est Christus, salvans omnes, qui te glorificant; sancta domina Dei genitrix, santificationes tuas transmitte nobis’, acciò a te possiamo in questa vita servire et nell’altra godere in gloria. Così sia."

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Pubblicato il 04 Ottobre 2011
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