L’eccidio di Meina: parla una testimone

Becky Behar racconta agli studenti del classico Crespi la sua storia di ragazzina ebrea nell'Italia delle leggi razziali, fino all'orrenda strage compiuta dai nazisti

La testimonianza di Becky Behar, figlia del proprietario dell’Hotel Meina racconta l’esperienza vissuta dalla sua famiglia durante il periodo nazista fino all’orrenda strage compiuta dai nazisti. Storia ripresa nel film di Costantino Lazzari.

«Quando una sera mio papà mi disse che non sarei più potuta andare a scuola con gli altri, per me fu un trauma». È roca ma ferma la voce di Becky Behar (foto) nel raccontare agli adolescenti del Liceo Classico Crespi di Busto Arsizio, riuniti al cinema teatro Manzoni, la sua esperienza di ragazzina ebrea presa nella spirale perversa delle persecuzioni antisemite, e sfuggita per un soffio alla deportazione e allo sterminio dopo aver assistito a scene terribili. Becky Behar è infatti una testimone dei fatti che sfociarono nell’eccidio di Meina, costato la vita a una ventina di persone, di null’altro colpevoli che d’essere ebrei, il 22-23 settembre 1943. 

Figlia di ebrei di origine turca – il padre aveva ancora tale nazionalità, e fu quello a salvare la famiglia – Becky crebbe serena, in un’infanzia senza preoccupazioni, forse fin ingenua («noi a otto-nove, dieci anni non eravamo come voi, non avevamo tutte queste cose, tutte queste informazioni»). Poi le nuvole cominciarono ad addensarsi con le infami leggi razziali del 1938, volute dal regime fascista per scimmiottare le consimili deliranti follie in vigore nella Germania di Hitler. Fu una vera pugnalata alla schiena nei confronti di tanti ebrei, che pure all’italianità sempre, e spesso al fascismo stesso, erano fedeli.

Fra le conseguenze immediate ci fu l’espulsione da scuola dei piccoli di "razza" (cioè religione, non esiste alcuna razza ebraica) ebraica. «Andai a salutare per l’ultima volta la mia maestra, che aveva le lacrime agli occhi. Ci rivedremo, Becky, mi disse. I compagni mi abbracciarono, ma poi nei giorni seguenti mi telefonarono, imbarazzatissimi, chiedendomi perdono perchè i loro genitori non volevano più che frequentassero la casa di un’ebrea». Il tempo delle radici giudaico-cristiane era ben di là da venire. «Io so cosa vuol dire essere diversa» dichara la signora Behar, lanciando un appello accorato ai ragazzi: «I vostri compagni stranieri che vengono da altre parti del mondo, non fateli mai sentire diversi. Io ho girato mezzo mondo, ho trovato sì miseria, ma anche tanta civiltà e persone di tutte le razze e fedi da cui imparare e prendere esempio».

Il peggio però doveva ancora venire. Il papà di Becky, antiquario, divenne proprietario e gestore dell’Hotel Meina, nell’omonima quieta cittadina sulla sponda piemontese del Verbano. Becky studiava privatamente, viveva con gruppi di altri ebrei che durante la guerra affluirono, alcuni da Salonicco, dove dopo la conquista tedesca della Grecia il consolato italiano aveva raccomandato a chi aveva un passaporto italiano di cambiare aria finchè poteva. Fra gli ospiti stranieri, ma correligionari, Becky strinse amicizia con tre fratelli adolescenti, i Fernandez, ebrei di lontana ascendenza spagnola: John, Robert e Blanchette, a Meina con genitori e nonni. In quel periodo agli ospiti si aggiunse anche il console turco di Milano, conoscente dei Behar, che aveva perso la sua casa milanese sotto le bombe alleate e fu ospitato generosamente. Un’ospitalità che avrebbe ripagato con il dono della vita e della salvezza.

Per i ragazzi non mancava qualche momento felice, ma l’esistenza della piccola comunità fu spezzata irrevocabilmente dall’armistizio dell’8 settembre 1943, seguito dall’occupazione nazista di gran parte d’Italia. «La notte dell’armistizio noi giovani facemmo festa, fu l’ultima volta della mia vita in cui fui davvero felice. Gli anziani invece piangevano, ci dicevano: ma non capite, cosa faranno ora i tedeschi?» Pochi giorni dopo arrivarono le SS, gli spietati squadroni della morte nazisti. «Arrivarono coi camion, svegliandoci di notte, poi entrarono un soldato e un ufficiale, altissimi, guidati da un interprete italiano, un fascista che conoscevamo bene e frequentava il nostro albergo, si chiamava Rossi». Seguì una scena terribile. «Lei è ebreo, disse l’ufficiale a mio padre, con una durezza e un odio spaventosi stampati in volto, e ospita altri ebrei, quindi è nemico della Grande Germania. Nulla di tutto questo le appartiene più. Attendete ordini». Tutti furono rinchiusi in una stanza, tremanti di paura e nutriti a stento con pane e brodaglia. «Gli adulti cercavano di farsi forza per noi ragazzi, ma la notte li si sentiva soffocare i singhiozzi». Si respiravano l’odio e la menzogna che avvelenava le coscienze. «Come ti chiami? mi chiese un giorno un soldato giovanissimo, forse diciottenne. Tu, ebrea, disse, un giorno ti sposerai, avrai bambini ebrei, nostri grandi nemici». Uno di quegli aguzzini, un ufficiale, sarebbe diventato dopo la guerra un imprtante dirigente di una nota casa di produzione di bibite. «Da quando l’ho saputo, non ne ho più bevuto una goccia».

Quando le SS portarono via il papà di Becky, fu il console turco a salvarlo, andando a pestare i pugni sul tavolo del comandante nazista a Baveno – «la Turchia era neutrale e i suoi cittadini andavano rispettati». Così fu e Becky potè non solo riabbracciare il padre, ma anche lasciare con i familiari la stanza divenuta la prigione degli ebrei, pur restando "ai domiciliari" nell’albergo. Ma le SS il 22 settembre cominciarono a prelevaregli adulti per ammazzarli: fra questi i genitori dei giovani Fernandez, di cui Becky, con un’"evasione" eccezionalmente rischiosa, riconobbe i cadaveri sfigurati, gettati nel lago dai nazisti e ritrovati da alcuni pescatori. «Con che coraggio poi una ragazzina di quattordici anni come me poté poi mentire a John, che era un inguaribile ottimista, e dirgli che sì, avrebbe presto rivisto i suoi? Me lo sono chiesta da allora se ho fatto bene a non dire la verità». Poco tempo dopo fu la volta degli altri, anziani e giovani. «Fu il nonno Fernandez a dirmi addio: Becky, mi disse, credo che non ci vedremo più. Era l’intuito di chi ha vissuto a lungo. I loro cadaveri non furono ripescati, le SS gli avevano applicato dei pesi al collo dopo averli gettati in acqua. Si ritrovarono solo degli abiti di Blanchette, una scarpa di John e poco altro».

In seguito il console turco scongiurò i Behar di mettersi in salvo abbandonando tutto, perchè la Turchia avrebbe potuto schierarsi con gli Alleati facendo perdere loro anche quel minimo di portezione che lui poteva garantire. «Fuggimmo senza soldi nè documenti attraverso il lago, grazie a dei pescatori. Fu solo a fine novembre che raggiungemmo la Svizzera – e la salvezza». Tanti altri, che vedevano la Confederazione come l’ultimo rifugio, non ebbero questa fortuna.

Redazione VareseNews
redazione@varesenews.it

Noi della redazione di VareseNews crediamo che una buona informazione contribuisca a migliorare la vita di tutti. Ogni giorno lavoriamo cercando di stimolare curiosità e spirito critico.

Pubblicato il 23 Gennaio 2008
Leggi i commenti

Commenti

L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di VareseNews.it, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.

Segnala Errore

Vuoi leggere VareseNews senza pubblicità?
Diventa un nostro sostenitore!



Sostienici!


Oppure disabilita l'Adblock per continuare a leggere le nostre notizie.