Contro mafia e ‘ndrangheta, la buona battaglia di suor Carolina

Importante testimonianza della religiosa, che fu collaboratrice di don Pino Puglisi a Brancaccio e oggi affronta le 'ndrine della Locride aiutando i giovani

La mafia si combatte con l’amore, con la forza, con l’esempio e con il coraggio. Questo il messaggio diffuso da Suor Carolina Iavazzo nell’incontro pubblico tenutosi lunedì sera al cinema teatro Lux di Sacconago, in una splendida cornice di pubblico. Accanto alla religiosa, collaboratrice di Padre Pino Puglisi, martire della lotta alla mafia, sul palco il ventenne
Massimo Brugnone, C
oordinatore Regionale del movimento "E adesso ammazzateci tutti" e socio fondatore dell’associazione Liberi di Pensare; gli ospiti erano introdotti da don Alessandro Riboldi, coadiutore della parrocchia SS. Pietro e Paolo di Sacconago. Moderava l’incontro Alessandro Bellotta.

Una serata straordinaria, quella del Lux, con un’ospite d’eccezione come suor Carolina (foto), davanti a giovani tra i 14 e i 16 anni che con l’oratorio di Sacconago hanno vissuto quest’estate un’esperienza breve ma importante e formativa nella Locride, incontrando i giovani del posto con suor Carolina e Stefania Grasso, figlia del commerciante Vincenzo ucciso dalla ‘ndrangheta per non aver voluto pagare il pizzo. Un’occasione per conoscere una realtà difficile e molto diversa da quella bustocca – pure a sua volta non estranea al fenomeno mafioso. A ricordarlo è Massimo Brugnone, autore di un intervento molto apprezzato, con il piglio di chi ha le idee chiare sul futuro perchè "grande" lo è già. La mafia è anche qui, ricorda, lo dicono i rapporti della DIA del 2006 e 2007: «Anche a Busto si paga il pizzo, sia pure una tantum, e la provincia di Varese è terreno fertile per i fenomeni estorsivi». Intanto, rincara Massimo, nella quarta regione italiana per sequestri di beni alla mafia, la nostra Lombardia, «i figli dei boss studiano economia e legge per infilitrare la finanza e le aule di tribunale, e la mafia ricicla i soldi e nasconde i latitanti. Busto Arsizio è nota in Sicilia come "Gela Due"». Che fare? Educare i giovani alla legalità e preservare la presenza dello Stato, a partire dalle cose più piccole. Non chiudersi nel proprio piccolo ma agire per cambiare le cose: «noi giovani dobbiamo studiare per arrivare a occupare i posti di responsabilità, prima che ci arrivino i figli dei boss». 

Memorabile l’intervento di suor Carolina, da lacrime agli occhi per sincerità, semplicità e intensità. «Sono nata dove c’è la camorra (ad Aversa, ndr), sono stata poi a casa della mafia (Brancaccio) e della ‘ndrangheta (San Luca, Locri), mi manca solo la Sacra Corona Unita» ironizza narrando la storia di una ragazza "ribelle" che trovò pace alla sua inquietudine nella vocazione. Dal 1991, con il passaggio a Brancaccio e l’incontro con don Pino Puglisi, la scintilla dell’impegno antimafia, che non si esplica in proclami, bensì in un diuturno lavoro "sul campo" fra i giovani, faticoso ma ricco di soddisfazioni.

«A Brancaccio la mafia era nell’aria, la gente la vedevi che si chiudeva dietro le imposte, come nei film». Nel contesto di questo quartiere dominio assoluto dei boss di Cosa Nostra don Pino Puglisi portò una irreversibile ventata di novità. «Era un sacerdote aperto» ricorda suor Carolina, «per lui l’altare fu non uno scudo, ma strumento per aprirsi ai poveri e agli ignoranti, gli sfruttati dalla mafia». Fatti come il cadavere di un anziano rimasto tre giorni senza nessuno a portarlo via, o una coppia di novelli sposi quasi trentenni ed entrambi analfabeti (!), fecero riflettere don Pino sulle chiavi del potere mafioso: miseria e ignoranza. Nelle cantine di un palazzone di otto piani c’era l’inferno. I boss ci avevano ricavato dei depositi di armi e droga (e ragazzini mai visti a scuola ne erano i corrieri), i ragazzi vi si divertivano a squartare i cani sconfitti nei combattimenti clandestini «per vedere com’erano fatti dentro», e le più turpi e sordide voglie nei confronti dei minori venivano soddisfatte con la violenza. A tanto orrore don Pino Puglisi rispose creando un centro per i giovani, accogliendo, educando, dando l’istruzione di base agli analfabeti, accompagnando i bambini a scuola. Tutte cose, che, diceva, venivano prima dei sacramenti, perchè solo dopo che ognuno avesse realizzato chi era, e chi era il proprio fratello, si sarebbe stati pronti per incontrare Cristo. Una crociata di liberazione, senza altra arma che il Vangelo.

Don Pino sopportò le offese e le minacce dei boss a lui rivolte. Non sopportò quelle contro i suoi collaboratori ed amici. Denunciò con veemenza, a Messa, chiamò «bestie» e «uomini senza coraggio» i capimafia, ma al tempo stesso li sfidò al dialogo, «perchè è facile nascondersi dietro una pistola invece di guardarsi negli occhi e parlare». Suor Carolina gli chiese se non temesse di esporsi troppo. «Cosa potranno mai farmi, più che uccidermi?» rispose il sacerdote. Il 15 settembre 1993, nella sua Brancaccio, dove era nato esattamente 56 anni prima, ricevette la corona del martirio perdonando cristianamente i suoi assassini.
«Padre Puglisi morì, ma non invano, tanti mafiosi sono morti come lui, ma è la vita, non la morte, che fa la differenza. Ci sono tre strade, e la peggiore, forse peggio ancora di quella del male, è quella grigia dell’indifferenza» ricorda suor Carolina, che poco dopo l’uccisione di don Pino Puglisi dovette lasciare Brancaccio ed andò a sistemarsi a San Luca, paese aspromontano famigerato per le faide di ‘ndrangheta: dalla padella alla brace. «Bisogna schierarsi dalla parte del bene, non farsi gli affari propri in pantofole, mentre il mondo muore della nostra indifferenza. Padre Puglisi morì per mostrarci la via della libertà: perchè solo chi è libero può fare del bene».

Nella Locride ostaggio delle ‘ndrine, l’allora vescovo monsignor Bregantini mise suor Carolina e le consorelle della Fraternità del Buon Samaritano, da lui fondata, a confronto con problemi del medesimo ordine di Brancaccio. «Le ferite possono diventare feritoie della grazie» sostiene monsignor Bregantini, ma la strada da percorrere è lunga in una terra segnata dall’arbitrio e dal sopruso, dove «lo strapotere mafioso», ricorda suor Carolina «si legge negli occhi della gente». Fin dai bambini prepotenti con i coetanei, fin dai ragazzini delle medie (in una scuola l’80% ha il padre carcerato o latitante) di cui suor Carolina accetta la sfida quotidiana, fatta di sgarbi e offese che col tempo, di fronte al coraggio – «non si può avere paura, mai mostrarsi deboli» – alla fermezza e all’amore, si stemperano. Storie di piccoli e grandi successi al Centro dedicato a don Pino Puglisi, nato su beni sottratti alla ‘ndrangheta, dove ragazzi destinati ad un futuro di violenza scoprono che un’altra vita, un’altra relazione con i propri simili è possibile. Non mancano i rischi: «dei pezzi grossi locali volevano finanziare il nostro centro – in cambio di voti, s’intende. Abbiamo detto di no». Il centro accoglie tutti, buoni e meno buoni, «senza giudicare, riconoscendosi fratelli e figli di Dio, senza sentirsi migliori di altri», dando con rigore e affetto regole a giovani altrimenti capaci solo di perpetuare l’eterna catena della sopraffazione. «Anche i mafiosi hanno bisogno di un sorriso (viene in mente quello mite rivolto da don Pino ai suoi assassini, ndr), sono come animali feriti, che aggrediscono per non essere aggrediti. Insegnamo che la vita può essere fiducia nell’altro e in sè, che l’abito firmato potrà anche sembrare un must, ma la firma più in è quella di Dio, che quello che si accumula su questa terra si perde, ma i tesori accumulati nel cuore restano».

Redazione VareseNews
redazione@varesenews.it

Noi della redazione di VareseNews crediamo che una buona informazione contribuisca a migliorare la vita di tutti. Ogni giorno lavoriamo cercando di stimolare curiosità e spirito critico.

Pubblicato il 29 Gennaio 2008
Leggi i commenti

Commenti

L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di VareseNews.it, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.

Segnala Errore

Vuoi leggere VareseNews senza pubblicità?
Diventa un nostro sostenitore!



Sostienici!


Oppure disabilita l'Adblock per continuare a leggere le nostre notizie.