Alzati e corri: così Christian dà nuova vita alle moto

Intervista al giovane Moretti che si è inventato un lavoro nel garage dietro casa, a Laveno Mombello. Trasforma vecchie moto in bolidi assetati d'asfalto. Il suo laboratorio si chiama Plan B Motorcycles, perché tutti dovremmo avere un piano B

Tutti dovremmo avere un piano B. Non solo per le scelte di vita, ma anche per quegli oggetti che esaurito il loro ciclo di vita, non smettono di funzionare. Un esempio? Le motociclette.
In un piccolo garage, sommerso da telai, forcelle, cerchi e attrezzi da lavoro, Christian Moretti dà nuova vita a moto vetuste, obsolete o che semplicemente hanno smesso di riempire gli occhi dei loro proprietari. Figlio di un perito elettrotecnico, nato a Varese e cresciuto sulle sponde del Maggiore a Laveno Mombello, Christian si è diplomato come perito elettrotecnico, ha studiato filosofia all’università, si è iscritto a un corso per diventare tecnico del suono e infine, nel 2012, ha deciso di assecondare la sua passione: le motociclette.

Partiamo dalla filosofia, quando studiavi all’università conoscevi già il tuo lato manuale?

«Sì, certo. Ma credo che dentro di me ci fosse un tentativo di reprimerlo. Alle superiori ho fatto una scuola tecnica con l’idea di diventare perito, poi quando è venuto il momento di decidere cosa fare, ho provato a cambiare direzione e mi sono detto: "proviamo a vedere cosa c’è di diverso"».

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Plan B Motorcycles e l’arte della motocicletta 4 di 12

Qual è stata la prima moto che hai trasformato?
«Il vecchioTenerè 600 del 1988 di mio padre. Ho iniziato a smontarla nel garage di casa con l’idea di tirarci fuori una Cafè Racer mono (foto a fianco), agile e leggera, anche se nessuno ci credeva (ride). Poi quando le cose hanno cominciato a farsi serie, ho chiesto aiuto a varie persone fino ad arrivare ad un ragazzo di Laveno, appassionato anche lui di moto, che mi ha aiutato a portare avanti il progetto. Da lì, più o meno, è nato tutto. Ah, e quella stessa moto la guido ancora oggi!».

Perché hai scelto il nome "Plan B" e il simbolo della farfalla per le tue creazioni?
«Diciamo che offro un piano B. Se hai una vecchia moto, non devi necessariamente buttarla. Puoi trasformarla. Quelle che vedi qui sono tutte moto vecchie a cui cerco di dare nuova vita. E poi trasformandole, non inquiniamo smaltendole o costruendone di nuove. In un certo senso le mie sono moto green (ride).

E il simbolo della farfalla?
«Perché anche da bruco, un rottame può trasformarsi in una farfalla (ride ancora)».

Cosa ha innescato in te questa passione per le due ruote?
«Credo che sia stata l’attrazione per le macchine inglesi, per le linee che i maestri battilastra riuscivano a imprimere sulle carrozzerie o sui serbatoi delle cafè racer che negli anni ’60 si davano battaglia attorno all’Ace Café e lungo la North Circular di Londra».

Delle tue motociclette mi colpiscono molto i giri degli scarichi e la cura nei dettagli. Qual è la tua cifra stilistica?
«Mi piacerebbe che venisse subito all’occhio che le mie moto hanno una sostanza nello studio della ciclistica, della sue geometrie: quindi dell’interasse, dell’altezza di guida e così via. Si tratta di applicare teorie moderne a modelli di moto vecchie. Trasformare un custom in una stradale, o un enduro in una cafè racer, non vuol dire solo lavorare sulla parte estetica, ma anche sulle geometrie, per rendere la moto guidabile e adatta al pilota».

Un altro aspetto che caratterizza le tue creazioni sono i serbatoi e le carene in alluminio. Come hai imparato a lavorare questo materiale?
«Ho imparato grazie ai tutorial su internet e all’esperienza di un artigiano di Ispra. L’alluminio è un materiale nobile, può essere lavorato in diversi livelli di finitura e invecchia in modo piacevole. La cosa bella sarebbe poterlo lasciare a vista, vederlo ossidare con il tempo, invecchiare insieme alla moto. Con il tempo, ho cercato di unire due grandi tradizioni. Quella dei battilastra italiani, che non concepiscono l’utilizzo della ruota inglese per lavorarlo e fanno tutto a martello, e quella degli inglesi che invece usano la ruota. Mischiare le due tecniche per me è stimolante. Mi consente di realizzare dei prodotti unici, che non si trovano sul mercato e che non saranno mai identici tra loro».

In un certo senso ti sei inventato un lavoro, la crisi economica ha influito in questa scelta?
«Diciamo che mi sono trovato a fare lavori che non mi piacevano. Quello che sto facendo non la considero un lavoro. È una cosa che ho sempre fatto con qualsiasi oggetto avessi tra le mani, dalle lampade alle macchine. Ho semplicemente assecondato un flusso. Passi la vita a studiare, a crearti un futuro e alla fine sei da tutt’altra parte, ma la mattina quando ti svegli sei felice».

In Italia customizzare una moto o una macchina è praticamente proibito. Questo rende difficile trasformare la tua passione in una professione vera e propria?
«Il mio è un laboratorio di design, più che un’officina, ma è vero che in Italia ci sono molti vincoli che all’estero non esistono. Ora tutto il movimento che si sta sviluppando attorno ai preparatori sta facendo muovere le acque, anche perché pure questa, a suo modo, potrebbe essere una buona leva per l’economia. Comunque a livello di burocrazia e difficoltà, siamo tra i paesi più sfortunati».

Quali sono i tuoi progetti? Ti piacerebbe aprire un negozio?
«Mi piacerebbe riuscire a fare sempre qualcosa di più, ma non so. Guarda Deus ex machina o Wrenchmonkees (altri due customizzatori), devi fare tanti compromessi, lavorare sul merchandaising e così via. Il mio ideale è Shinya Kimura, un preparatore che realizza due, tre moto all’anno. Riservato e allo stesso tempo intrepido. È molto ricercato e le sue moto valgono un sacco di soldi, ma lui vive per preparare e correre con la sua moto sul lago salato».

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Pubblicato il 10 Gennaio 2015
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