Malpensa come Lampedusa, porta dei rifugiati

Le telecamere raccontano solo degli sbarchi sulle coste dell'isola, ma anche gli aeroporti sono punti d'accesso importanti: a Varese il sistema di accoglienza rappresenta un esempio positivo




Malpensa è un po’ come Lampedusa, ma pochi se ne rendono conto: lo scalo della brughiera è una delle principali porte dei flussi migratori, ma nell’immaginario i “clandestini” arrivano solo dal mare. Della questione si è parlato durante la tavola rotonda dedicata ai rifugiati ai “Colori del mondo”: un’occasione per fare chiarezza sui richiedenti asilo e sulle norme del diritto internazionale, ma anche sullo scontro aperto (e per ora sopito) tra Italia e Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu. 


Lo status di protezione previsto dalle leggi italiane è in realtà articolato: ai rifugiati veri e propri, perseguitati nel loro Paese e quindi accolti a tempo indeterminato con un apposito passaporto, si aggiungono le persone che godono di protezione sussidiaria o che hanno ricevuto permessi di soggiorno a scopo umanitario, dalla durata ben precisa (da uno a tre anni). «Va sfatato innanzitutto quanto è comparso spesso sui giornali, che le persone riconosciute come rifugiate sono una minoranza esigua di quanti fanno richiesta. Non è vero: il 50% dei richiedenti asilo dimostra di aver diritto a una protezione di qualche tipo» spiega Marco Tenaglia dei Consiglio Italiano per i Rifugiati. Tra i richiedenti la maggioranza è formata da persone che realmente rischierebbero la morte se tornassero nei loro Paesi, perché perseguitate per i più diversi motivi, religiosi, politici, sessuali, etnici. Un dato che è certificato dallo stesso ministero degli interni: «La valutazione viene fatta da dieci commissioni a livello nazionale, composte da un rappresentante dell’Anci, uno dell’Unhcr e due del ministero» spiega Francesca Paltenghi, funzionaria dell’Unhcr, l’alto commissariato dell’Onu per i profughi e i rifugiati.   


L’esistenza dei richiedenti asilo e dei rifugiati torna alla ribalta solo quando emergono problemi, come in via Pola a Varese o a Milano (quartiere Bruzzano) poche settimane fa. Una «emergenzialità», coma la definisce Tenaglia, che rischia di far dimenticare il quadro complessivo. «A Varese l’organizzazione che si occupa dei rifugiati è un esempio positivo, una realtà che funziona, che non si  ritrova in altre realtà anche vicine, come ad esempio Milano» dice don Roberto Davanzo, direttore di Caritas ambrosiana. Un sistema di assistenza che deve far fronte ai consistenti arrivi a Malpensa, dove è attivo uno sportello gestito da Caritas e Centro Italiano per i Rifugiati  per l’assistenza immediata ai richiedenti asilo. «Nel 2007 – spiega Claudia Saccomanni, operatrice del Cir – sono state 1082 le persone arrivate Dopo la riduzione dei voli assistiamo soprattutto i “casi Dublino”, rifugiati e richiedenti asilo rinviati da altri Paesi europei perchè si sono allontanati dal Paese che li ospita». I richiedenti asilo sono poi ospitati nelle strutture cittadine di via Pola e via Conciliazione. Un sistema che funziona bene, anche se il Cir chiede inutilmente da tempo di poter spostare lo sportello dall’area “italiana” dell’aeroporto alla zona prima della dogana. Dove a volte sono costretti a bivaccare per giorni i richiedenti asilo, prima di poter entrare ufficialmente in Italia. 


Se le vie terrestri e gli aeroporti sono i principali punti d’accesso, il dibattito non poteva dimenticare il tema caldo dei respingimenti, giudicati illegali secondo la legge internazionale. «La metà delle persone che arrivano hanno diritto all’asilo: è agghiacciante pensare che, respinti, rischiano ora la vita nel Paese d’origine» comemnta Livio Neri, dell’Associazione Studi Giuridici. Persone come Alì Ghedo, che in Togo faceva il sindacalista e per aver organizzato una manifestazione rischiò la tortura e il carcere. Arrivato in Italia nel luglio 2007, è stato riconosciuto rifugiato dopo una battaglia legale durata un anno e mezzo.  




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Pubblicato il 01 Giugno 2009
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