Battarino confessa: “Non ne potevo più”

L'autore di "Sentieri invisibili" (Todaro editore) ha spiegato, di fronte a una numerosa giuria di sessanta lettori accorsi alla biblioteca della Frera, le ragioni che lo hanno spinto a scrivere un romanzo giallo

Giuseppe Battarino ha presentato il suo romanzo giallo Sentieri invisibili a Tradate alla biblioteca della FreraA domanda risponde. Anche se di solito a domandare è lui. Giuseppe Battarino, gip del tribunale di Varese, sa che nei suoi confronti ci sono indizi gravi, precisi e concordanti. Il principale dei quali è una copertina gialla.
Il fatto: ha scritto un romanzo ("Sentieri invisibili"). Ora deve piegare perché lo ha fatto. L’avvocato Giulio Pezzotta incalza con le sue domande, anche se non sono state concordate con la difesa. Battarino risponde: «Non ne potevo più, ecco perché l’ho scritto».
Non ne poteva più delle fiction con i «figaccioni» che sbranano le donne, di indagini improbabili, di situazioni più da fantascienza che da giallo. La routine per la ricerca della verità su un delitto è ben altra cosa. L’investigatore, cioè il maresciallo dei carabinieri, si affida all’esperienza e a volte a un vecchio manuale degli anni ’40 che quelli di Csi userebbero come ventaglio e i Ris di Parma per accendere il camino. Battarino si lascia scappare una frase che inchioda in un colpo solo sceneggiati tv, scrittori che sembrano criminologi e criminologi che sembrano scrittori: «Le indagini migliori sono quelle tradizionali, ovvero quelle fatte con l’intelligenza».
Davanti a sé ha la giuria, sessanta persone che ascoltano in silenzio la sua deposizione nell’aula della biblioteca della Frera di Tradate. Il giudice-scrittore non fa nomi. Non ama le chiamate di correo, soprattutto se si tratta di autori importanti «che scrivono un libro ogni 4 mesi». Accusa però i giornali di pressapochismo nella loro cronaca quotidiana, di enfatizzazione inutile del normale lavoro quotidiano di inquirenti e forze dell’ordine. Lo dice persino Camilleri: «So solo quello che scrivono i giornali». Sono solo questi ultimi, dunque, i veri colpevoli delle situazioni irreali che si leggono nei gialli e quindi, in ultima analisi, ad aver determinato il passaggio all’atto di  Battarino? A un certo punto, costretto dalle insistenze di Pezzotta, lo scrittore confessa un nome. Si tratta di un autore di gialli in lingua tedesca, tale Massimo Marano. Sarebbe lui ad aver dato «la spinta decisiva» alla scrittura di “Sentieri invisibili”. «Gli facevo da consulente», prova a difendersi il gip. Pezzotta non desiste, il giudice-scrittore sta crollando. Allora cerca di inchiodarlo con l’unica domanda che non si dovrebbe mai fare a uno scrittore, a maggior ragione se nella vita fa il magistrato: «Quanto c’è di Giuseppe Battarino in questo libro?». Il giudice tentenna, sa che deve fuggire da quella domanda e così fa altri nomi, forse per depistare. Parla del capo dei capi, Giancarlo De Cataldo, scrittore di successo con il quale intrattiene un rapporto di penna, della preziosa editor, Tecla Dozio, e persino di un tale Martin Mystere, incontrato su una bancarella, che dal nome sembrerebbe un extracomunitario. Confessa persino che tra il personaggio Sergio Petrelli, pubblico ministero protagonista della storia, e il maresciallo dei carabinieri che indaga con saggezza, lui preferisce quest’ultimo perché «non ragiona per categorie». 
Non ha scampo, Battarino deve confessare che ha scritto anche per un bisogno narcisistico, per una volontà di potenza. Ma da buon giallista, sul finale, tira fuori la prova che non ti aspetteresti mai: le lettere dei suoi lettori. «È un libro scritto con una buona coordinazione mentale» è la constatazione di una lettrice.
«Non è vero, non ho una buona coordinazione mentale». Parola, questa volta, solo di scrittore.

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 13 Febbraio 2010
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