“Vogliamo sapere perché sono morti”
Una serata carica di emozione all'ex cinema Rivoli con le testimonianze dei famigliari di Giuseppe Uva, Stefano Cucchi e Federico Aldovrandi. Manconi: «Queste donne sono la storia della nostra democrazia»
Verità e giustizia. Sono queste le due parole che più di altre hanno risuonato giovedì sera nella sala dell’ex Cinema Rivoli durante l’incontro organizzato da varie associazioni tra cui Arci, Amnesty international, Cgil, Libera, Filmstudio90 e "A buon diritto", sui casi di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi e Giuseppe Uva. Il primo aveva 31 anni, è morto il 22 ottobre del 2009 a Roma, dopo essere stato privato della libertà personale (l’inchiesta è tuttora in corso); il secondo aveva 18 anni ed è morto a Ferrara il 25 settembre del 2005 durante un’operazione di polizia (in primo grado sono già stati condannati 4 poliziotti per eccesso colposo); il terzo aveva 43 anni ed è morto il 14 giugno 2008, dopo essere stato trattenuto per alcune ore nella caserma dei carabinieri di Varese (si è svolta l’udienza preliminare, in cui sono indagati due medici).
Dalle tre donne è arrivata una richiesta di verità accorata e piena di emozione, rivolta alle procure ma anche alla società civile, ai tanti presenti nella sala dell’ex cinema Rivoli. Una richiesta che non è risuonata come una condanna indifferenziata di tutti gli appartenenti alle forze dell’ordine, bensì come la necessità di isolare le mele marce perché cose di questo genere non accadano più.
Il giornalista Vincenzo Masotti, moderatore dell’incontro, ha iniziato con una domanda semplice ma carica di senso: «Che tipo di famiglie sono le vostre?».
«Noi siamo una famiglia normale – ha risposto Ilaria Cucchi – e ciò che è successo a mio fratello è assurdo. Ma ricordo che queste cose possono accadere a tutte le famiglie. Stefano è stato ingoiato per sei giorni dal carcere, per molto tempo non ci è stato detto cosa è successo e tantomeno perché mio fratello era morto. Per questo abbiamo deciso di non chiuderci nel nostro dolore e combattere questa battaglia per la verità».
«È da quando è morto mio fratello che attendo di sapere dalla procura perché è morto- ha aggiunto Lucia Uva -. E sto male al pensiero che per quetsi tre casi di cui si parla ce ne sono molti altri che rimangono fuori dalla porta».
Patrizia Aldovrandi, mamma di Federico, giustizia l’ha ottenuta ma il suo dolore, profondo e coinvolgente, è ancora lì a testimoniare per quel figlio che non c’è più. «Dopo l’apertura del blog – ha spiegato la donna – e dopo che i giornali hanno iniziato a parlarne, e dopo che è cambiato il pm, ci siamo diretti verso la verità. Noi siamo qui a testimoniare che nessun poliziotto puo’ rimanere impunito o si possa ritenere impunibile».
Manconi ha invitato le tre donne a non uscire dall’emotività perché «la loro testimonianza è il miglior contributo alla tutela delle istituzioni che hanno il dovere di garantire la democrazia e l’uguaglianza delle persone di fronte alla legge. La loro storia è la storia della nostra democrazia. La tensione presente nella nostra società, che spiega queste forme di abuso, è stata creata anche da chi agita lo spauracchio del nemico. In democrazia esistono solo gli avversari».
Da un poliziotto ti aspetti una difesa ad oltranza, invece Gabriele Ghezzi (Pd, ex segretario provinciale di Milano del Siulp Cgil) si accoda a quell’emozione e a quelle tre richieste. «La polizia e le forze dell’ordine hanno il dovere di tutelare le persone – ha detto Ghezzi -. La lotta per la democratizzazione nelle forze dell’ordine è iniziata negli anni Settanta ed è continuata in tutti questi anni. Una responsabilità enorme di questo clima ce l’ha la politica e chi ha affrontato il problema della sicurezza in un modo irresponsabile».
Tre famiglie che hanno come controparte lo Stato e come difensore lo stesso avvocato, il ferrarese Fabio Anselmo. «Ho preso la loro difesa – ha concluso l’avvocato – perché io ci sono passato. Tutti mi dicevano sei matto, ti guardavano con lo stesso sguardo di compatimento che offrono ai famigliari colpiti da una tragedia. Io ho accettato, non per soldi, tra l’altro non mi conviene, ma perché ho avuto mia moglie in coma per un anno: i medici mi dicevano una cosa e io gli credevo, ma non credevo a mia moglie. So come ci si sente. So il senso di colpa che queste tre donne provano. E quando il diritto all’incolumità della persona viene violato da chi dovrebbe tutelarlo, allora dobbiamo domandarci qual è il senso della democrazia e quale deve essere il nostro ruolo».
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