Il mio San Pietro giovane

Tratto da un'opera di Don Giovanni Valassina

Don Giovanni Valassina, per tutti "don Giannino", è un sacerdote nato a Gemonio nel 1925. Ordinato nei primi anni ’50 dopo aver studiato al "Cairoli" di Varese e al Seminario di Como, è stato parroco in diversi paesi del Comasco. Poeta e scrittore ha collaborato con David Maria Turoldo, che ha scritto la prefazione del libro "Sul sagrato a parlare di speranza", editrice Dialogo, 1991. Da quest’opera abbiamo tratto il brano di seguito.

Il mio San Pietro giovane

Sul sagrato di una chiesa di paese, il "mio" paese, Gemonio, nel Varesotto, tutta la mia infanzia: le lacrime di orfano dodicenne, i turgori seminaristici. I nomi più cari non li ho scritti: vivono in me, nello scrigno dei ricordi: care ombre che mi accompagnano in risonanze, cari volti sull’album di famiglia che il tempo non può pietrificare.

* * *

Il "mio" S. Pietro giovanile (tra gli anni ’30 e gli anni ’50) ha il cielo verde: quel verde in tutte le gamme, tanto carico di sole da riscaldare e liquefare l’azzurro, il celeste, il viola del bellissimo cielo di Gemonio, indimenticabile.
Ripercorro, con fantasia memore, visioni e ricordi tuffati nel mare della giovinezza. Li rievoco con la scapigliatura d’allora: a squarci, a tratteggi, a incastri, a mosaici di impressioni.

La galleria dei tigli è il preludio. Ouveture di una sinfonia che esplode in mille suoni e voci e accordi sul grande piazzale, sorvegliato dalle piante secolari, giganti buoni, imponenti sentinelle del silenzio, segnaletica verticale di un Infinito più vicino, a portata di mano (il vecchio Cimitero, l’Ossario, il Parco delle Rimembranze, l’antica Chiesa) a riannodare terra e cielo, morti e vivi.

I rumori giungono smorzati. addomesticati, rispettosi della musica della vita (qualche raro colpo di clacson, l’euforia del treno Laveno-Milano, il richiamo estivo al gelato tuttapanna fatto a cannella).
I rondoni volteggiano saettanti attorno al campanile, solenne e leggiadro, saldo di antiche pietre levigate dal vento, con dentro il mistero di botole e scalette su fino al brivido dei nidi e delle campane argentee.
Nell’aria immobile estiva, ronzano, ospiti indisturbati, insetti, mosche, qualche tafano petulante, un raro carnabò. Le cicale ritmano senza sosta, in alternanza, le interminabili ore torride.
Di primavera la sagra dei maggiolini, la sarabanda della peluria di pioppi, la luminaria delle lucciole: quel profumo intenso, penetrante, dolcissimo dei fiori di tiglio (riesumati nelle tisane invernali materne: per tosse, raffreddori, bronchiti) in un mélange di aromi: glicine e menta, fieno e miele, tutta la campagna in fiore.
D’inverno riemerge la chiesa, cittadella dello spirito, lievemente sopraelevata sui primi accenni delle dolci colline prealpine: con il suo ermellino di neve ad accentuarne le movenze classiche romaniche e la spazialità armonica e le linee robuste di fede rocciosa, scalpellata nella vita. Una presenza forte, da uomini forti. Solenne e accogliente, rifugio e cantiere: direzionata verso il Mistero e radicata nella ferialità di ogni tempo.

Le cappelle, finestre sull’infinito, contengono e abbracciano il sagrato. Una passatoia erbosa con fiori di campo fin sulla soglia della casa di Dio e degli uomini. L’antica devozione è predicata da stinti e corrosi affreschi (macchie di colore, con qualche scorcio di Calvario, un lembo di tunica, spezzoni di croce) intravisti dietro la rete metallica arrugginita delle cappelle sbrecciate. Qualche anziana signora, curva di ricordi e di lutti, passa in preghiera di cappella in cappella, rivisitando a memoria, l’evangelo dell’"Ecce Homo". Modulazione di spazi e dialoghi: tra la via Crucis di Criso e di ognuno, tra schegge di cielo, di panorami, di campi, di case. I bambini giocano sul sagrato. A "girotondo", tra le piante amiche. A "rialzo", sulle predelline delle cappelle e sui muriccioli lastrati di serizzo. A "nascondersi", tuffati nelle siepi tra i martelli, tra i rovi graffianti ricchi di more succose. A "bandiera", in pomeriggi e serate di Grest (gruppo estivo 1940-41-42-43…) e delle entusiasmanti "Feste dei ragazzi" per una banda di drogati solo di cielo, di boschi, di giovinezza, della povertà del tempo di guerra.

A sera, una nebbia azzurrina sale dalle marcite verso Caravate e Beverina. In cielo le prime stelle. Si spengono i colori del tramontoo. Scompare dall’estremo orizzonte il Monte Rosa, poi il Mottarone, poi il S. Clemente e la galoppata delle colline con racchiuso o indovinato, tra le velature, un lembo di Lago Maggiore. Scende la malinconia della sera. Nessuna luce. Sull’oasi verde di S. Pietro un mantello nero senza paure. Buio e voci amiche invitano al rientro. Gli ultimi "ciao" incrociati con soprannomi e sberleffi. Una scatenellata ai cippi delle memorie patrie, che si danno teneramente la mano, con ghirlande di affetto e di fedeltà, per accompagnare ricordi ed esempi al futuro.
C’è tempo per una preghiera. Un’ultima quasi furtiva visita e un’occhiata. all’"ossario", là, a destra, dietro una grata di ferro: per un "requièm" e per un supplemento di fantasie: attratti, incuriositi, emozionati davanti all’ammucchiata di teschi, rotule, tibie dei "morti di peste" (favolosi personaggi del passato, crociati, armigeri, feudatari: o, prosaicamente, i primi Jemoli, Valmaggia, Salvini, Martinoia, Pozzi, Corda, Valassina, della Gemonio che fu?).

Le rane salmeggiano roche le loro preghiere della sera. Anche i Morti non fanno paura. Hanno dato la "buonanotte": dall’Ossario, dal vecchio Cimitero, dai cippi dei Caduti. In risposta: ai piccoli "requièm", imparati dalle nonne: ai "presente" e agli "alalà" e al "silenzio" delle grandi adunate popolari, imposti dallo squillo, altissimo, della cornetta.
Tutti a casa, profumati di campagna, le gambe e le mani stigmatizzate da rovi e ortiche: lungo il bianco nastro polveroso che sale da Gemonio: cantando, scherzando, rincorrendosi a tappe o a perdifiato sulle scalette della stazione della F.N.M.
Niente insonnia; solo i sogni verdi degli anni verdi. Con il campanile di S. Pietro, svettante nel cielo. Con il sagrato pieno di gente per le grandi feste: S. Pietro, in giugno; l’Assunta in agosto. Con la banda musicale gemoniese, ottoni e divise tirati a lustro, tra scrosci di suoni e di battimani, a incantarci e zittirci.
Con la chiesa piena di fiori da tutti i giardini; e le volute d’incenso arabescate nei raggi di sole piovuti dalle finestre romaniche; e le balaustre ricolme di cesti, di torte , di frutta per l’"offerta" da incantare sul muretto o sul tavolo in mezzo al sagrato; e le campane che cantano a festa, sempre a festa. Con la Madonna "giottesca", da cattedrale e da catacomba, che ti guarda con quei suoi occhi a mandorla e ti fissa, amica, e ti sorride, mamma, per sempre.

È questo "mio" S. Pietro, un sogno? O, S. Pietro è "tutto" un sogno?

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 31 Ottobre 2006
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