“Ho consegnato io il riscatto del sequestro Riboli”

Rivelazioni dell'avvocato Lucio Paliaga: la valigia, le parole d'ordine, gli incontri nella notte. Un pezzo di storia nascosta che ritorna

Sequestri e pistole, ostaggi e riscatti. Un passato che affiora a trent’anni di distanza. Dopo il racconto di Gianni Spartà a Varesenews, l’avvocato Lucio Paliaga, avvocato di lungo corso, ha deciso di raccontare la sua verità sul sequestro Riboli.  

Paliaga portò la valigia con i soldi per la banda che sequestrò e uccise Emanuele Riboli: che cosa accade in quelle notti di autunno del 1974? Perché non riuscì la liberazione del ragazzo?

Il legale varesino parla raramente di quei tragici momenti, ma questa a volta ha deciso di fare un’eccezione e ci ha regalato un resoconto straordinario.

Avvocato, lei fu l’uomo della trattativa del sequestro Riboli, ci racconta come incontrò i rapitori e che cosa provò in quei momenti?
«Furono giorni terribili, pieni di angoscia. Poco dopo il sequestro del ragazzo, i rapitori chiamarono la famiglia, ma Luigi Riboli, padre di Emanuele, chiese subito di lasciare che fossi io a fare da tramite. La prima telefonata arrivò in studio. Accento calabrese o siciliano, una voce fluente, ci chiesero un miliardo. ‘Non li abbiamo’ dissi subito d’istinto. Ricordo che mi stupii per la cifra esorbitante».

Come reagì alla richiesta?
«Chiesi garanzie sulla salute del ragazzo e mi mandarono delle lettere, scritte da lui, su carta del Corriere della sera con in testa la data. Noi raccogliemmo circa 200 milioni e ci accordammo per un incontro».

Veniamo alla parte più avventurosa del suo racconto, come avvenne il contatto con i rapitori i quelle notti di ottobre del 1974?
«Ci dissero che dovevamo portare i soldi sulla via Cassia, in un tratto tra Siena e Roma. Le istruzioni erano queste: camminate a bassa velocità, con la luce interna dell’auto accesa e aspettate un segnale».

Che tipo di segnale?
«Dicevano che avremmo visto un segnale di fuoco oppure un ostacolo in plastica che ci avrebbe fatto capire che dovevamo fermarci. A quel punto io dovevo dire ‘Svizzera’ e il sequestratore doveva rispondere ‘Italia’».

Già, le parole d’ordine, come in un film. Continui….
«Facemmo quella strada per una settimana, tutte le sere, partivamo e poi tornavamo indietro; andavamo a dormire a Firenze».

Chi eravate?
«Io e lo zio del ragazzo, Pierino Riboli».

Faceste diversi tentativi, ce ne parli…
«Sì, ci furono errori ed equivoci. Uno dei primi viaggi, fermammo diverse persone dicendo la parola d’ordine, ma nessuno ci rispose».

E poi?

«Un episodio fu particolarmente curioso. Ci fermammo a fare benzina, dietro di noi si fermò anche un furgone. Il benzinaio vide che c’era una macchia di olio sotto il mezzo, andò a vedere dove c’era la perdita e improvvisamente aprì il portellone: si trovò di fronte cinque carabinieri con i fucili, una scena da non credere e allora sa che cosa fece?»

Che cosa?

«Richiuse il furgone, e zitto zitto andò a chiamare la polizia».

Possibile?
«Eh si, purtroppo sì…noi in realtà non ci accorgemmo di nulla, non sapevamo di essere seguiti, ma ricordo che fummo superati da diverse auto della polizia a gran velocità: scoprimmo poi che la polizia era stata mobilitata e che cercavano un furgone con una banda di rapinatori armati, capisce? ….mentre in realtà erano i carabinieri armati…».

Che altro accadde?
«Nel viaggio successivo eravamo soli; a un certo punto ci lanciarono davanti all’auto un sacchetto pieno di foglie secche. Ci fermammo e finalmente capimmo che era arrivato il momento del pagamento del riscatto. La tensione era altissima. I sequestratori si presentarono davanti a noi con i fucili, Pierino Riboli si terrorizzò, mise in moto, e partì a tutta velocità. Lo sgridai perché aveva ceduto alla tensione. Anche i sequestratori non capirono e infatti nella telefonata successiva ci chiesero perché eravamo scappati».

Che cosa fecero allora i sequestratori?
«Cambiarono strategia, ci dissero di consegnare la valigia con i soldi sulla strada tra Como e Lecco. La valigia doveva essere appoggiata al margine della strada, vicino alla boscaglia, in questo modo i rapitori l’avrebbero presa e portata subito in mezzo alle frasche».


Cambiarono il luogo dell’appuntamento…e come vi organizzaste?
«Questa volta ci andarono due carabinieri ma fecero un errore fatale: misero la valigia in mezzo alla strada, e una giulietta dell’arma la travolse, così del riscatto non se ne seppe più nulla».

Da quel momento le speranze si persero…
«Chiamarono e dissero che non avevamo pagato. Poi l’ostaggio fu forse venduto a un’altra banda, andammo a Viterbo a caccia di notizie, ma niente».

Finì anche in Germania per colpa di uno sciacallo….
«Sì’, fu una vicenda triste. Arrivai a Dusserldorf perché un uomo telefonò dicendo che voleva dei soldi e in cambio mi avrebbe dato delle informazioni preziose. Mi chiese di mettere il denaro in Barbarossa Platz, sotto la coda della tartaruga della fontana. I poliziotti tedeschi furono efficientissimi, fecero il calcolo dei passi che dovevo percorrere e dei tempi, poi si appostarono».


Che cosa fecero?

«Quando videro l’uomo, uscirono da tutte la parti e da alcune macchine in cui fingevano da essere innamorati che si baciavano. Insomma lo presero in fretta, era un siciliano che raccoglieva articoli di giornale sul sequestro Riboli, un volgare sciacallo».

L’ultimo tentativo?
«Un mago fatto venire dall’Olanda con un elicottero per scandagliare il Varesotto con le sue qualità di sensitivo, ma non ci fu nulla da fare».

Il caso Riboli finì male, ma lei fece da garante in un altro sequestro dell’epoca, quello di Antonio Parma, figlio del re delle casseforti, a Saronno, nel 1977. Come mai?
«Me lo chiese l’allora procuratore di Busto Arsizio, proprio perché avevo gestito la trattativa del caso Riboli. Lì però….filò tutto liscio. Mi diedero un miliardo, ma io dissi ai rapitori che avevo solo 950 milioni…insomma…feci risparmiare 50 milioni alla famiglia…».


Come li consegnò?

«Misi tuttto in una sacca che avevo comprato alla Standa in piazza Monte Grappa e andai a consegnare il riscatto. Dovevo fermarmi al chilometro 12 della tangenziale ovest. Arrivai, accostai, mentre intorno le auto passavano ignare di tutto».

E poi che accadde?
«Arrivò un’auto, fecero segno tre volte con i fari. Scese un uomo, io gli guardai la mani, aveva una pistola e mi spaventai. Il piano prevedeva che io aprissi il baule di dietro con la leva sotto il volante, invece, non ricordo bene perché, scesi".

Ebbe paura?
«La paura c’è ma bisogna controllarla. Per fortuna l’uomo aveva una calza da donna in testa e non potei riconoscerlo; prese i soldi, mentre mi rimase in mano la cinghia della sacca, e se ne andò. Lo chiamai: ‘e il ragazzo?’ dissi. ‘Non si preoccupi’ rispose. E così  tornai a Saronno dai Parma».

Fu liberato l’ostaggio?
«Sì, dopo due ore arrivò una telefonata dai carabinieri di Galliate Novarese, il ragazzo era libero».

Quante avventure…le chiesero ancora di portare il riscatto di un sequestro?
«Sì, me lo chiesero una terza volta, ma dissi di no, erano state esperienze molto dure e non volevo più rischiare la pelle…».

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 23 Luglio 2007
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