La Grande Guerra raccontata da un soldato ragazzino

Cent'anni fa l'attentato di Sarajevo che diede il via ad uno dei più grandi massacri del '900. Un giovane di Laveno Mombello viene mandato in prima linea a 17 anni. Abbiamo trovato il suo diario e raccontato la sua vita

prima guerra mondiale fotoÈ il disincanto dell’orrore che schiaccia i ricordi delle belle giornate coi compagni di scuola, appena passate e già sfiorite col fango delle trincee, gli scoppi delle bombe e l’odore del sangue.
Davide contro Golia.
La vita contro la morte: cosa pensa un uomo, poco più che bambino, quando va alla guerra? Pensa questo: “Colla mente andavo passando in rassegna la bella festa grande da fanciullo e mi rattristavo pensando che era e, purtroppo è, passata per sempre.
Troppo presto ci hanno voluto far diventare uomini e il nostro spirito ancora giovane non può fare a meno di ricordare le gioie passate e di rattristarsene come di una perdita troppo prematura.
Diciotto anni sono pochi per poter passare allegramente le feste di Natale lontano dalla famiglia e per di più al fronte!”.
Lo scrive in un diario di guerra Giuseppe Trentini, classe 1899, nato a Laveno Mombello, richiamato alle armi mentre era a scuola, spedito in prima linea e tornato a casa con un ricordo permanente, una malinconia che sempre lo accompagnò per i suoi giorni a venire. La malinconia di chi ha visto il mostro negli occhi: la guerra. Il suo diario, assieme a quello di tanti altri soldati che un secolo fa partirono in armi è stato raccolto dall’Archivio Diaristico Nazionale e pubblicato da uno “speciale” del gruppo Espresso in occasione della ricorrenza del primo conflitto mondiale. Testimonianze dirette che sono divenute storie di famiglia per le centinaia di migliaia di soldati che hanno partecipato ad un evento epocale e sconvolgente. Le figlie di questo soldato hanno custodito questo diario e nel 1987, hanno cominciato a trascriverne il contenuto.
Da qui cominciamo la storia di Giuseppe Trentini.

UNA CULLA FRA LAGO E FERROVIA – Anno di cambiamenti per la famiglia Trentini, il 1899. Il padre, Angelo, fa il ferroviere a Laveno Mombello per le Ferrovie Nord Milano e di lì a poco verrà trasferito a Saronno: ci andrà con la moglie ed il piccolo Giuseppe, che nasce al primo piano della stazione, dove un tempo vivevano gli impiegati della ferrovia: ora, come allora, un posto di passaggio, da cui fra i treni in transito per Milano, con sbuffi di fumo nero carbone, si vede bene il Lago. In quegli anni il papà di Giuseppe fece carriera e divenne capo stazione a Saronno per poi incominciare a lavorare a Milano.

RAGIONIERE, LA CARTOLINA – Passano gli anni, Giuseppe cresce, studia. E’ bravo a scuola, riesce bene e coi sacrifici del padre si iscrive a ragioneria all’istituto Carlo Cattaneo di Milano, in piazza Vetra. Un percorso non scontato: avere un diploma in quegli anni era un traguardo che poteva aprire molte porte e avviare a rapide carriere. Ma qualcosa di brutto stava per accadere.
L’Italia entrò in guerra nel 1915: era la mobilitazione generale e occorrevano truppe da mandare al fronte; il regio esercito cominciò dalla leva. Presto toccò alle classi più fresche. Arrivò il turno anche per Giuseppe che a 17 anni aprì la porta al postino: era la chiamata alle armi. Non c’era possibilità di rinvio e per questo dovette rinunciare a completare gli studi per diplomarsi in un secondo momento e sostenere gli esami grazie alle licenze. A 18 anni era già al fronte. Quelli come lui vennero chiamati “i ragazzi del ‘99”: dopo la guerra venne disposto uno speciale riconoscimento per i combattenti della Grande Guerra: nel 1968 furono nominati “Cavalieri di Vittorio Veneto”.

prima guerra mondiale foto “FORSE NON SAREI MAI PIU’ TORNATO” – “E ci incamminammo per la strada di Val Brenta solitaria e tutta mascherata. Dinnanzi a noi stava l’ignoto e io guardavo indietro verso la pianura cha mano a mano scompariva pensando con angoscia che forse non sarei mai più tornato. A destra e a sinistra paesi distrutti, case rase al suolo e buchi di granate da ogni parte fra un va e vieni rapido di carri, camion e uomini fra le mascherature”.
Il soldato Giuseppe Trentini fa parte della 47° compagnia 3° reggimento genio telegrafisti, di stanza a Firenze e successivamente inviato al fronte nel Vicentino e nel Trevigiano: il suo compito era quello di stendere le linee telegrafiche. Nel Terzo Genio Telegrafisti si arruola volontario anche un ufficiale, classe 1874: si chiama Guglielmo Marconi.
“… Arrivammo a Valstagna e qui bisognava passare il ponte colla maschera perché tiravano spesso a gas. Il paese era quasi completamente distrutto e mi fece moltissima impressione soprattutto a causa di certi portici freddi e umidi dove le porte delle case, tutte aperte e sfondate, lasciavano vedere nell’interno i calcinacci dei muri abbattuti dalle granate e fra di essi qualche avanzo di armadio e di letto dai ferri contorti ed alzati in alto come le braccia di uno che affoga e chiede aiuto”. Questi i pensieri di un ragazzino in divisa grigioverde.

prima guerra mondiale foto UN PIEDE NELLO SCARPONE ABBANDONATO – Trincea delle Frasche, Altopiano della Bainsizza, Monte Coston, Ortigara, Isonzo: eccola la furia, la morte e la paura che mette fine per davvero ad ogni pensiero civile. È l’angoscia di essere colpiti dai cecchini, che spesso si accanivano contro chi tirava le linee del telegrafo, preziosissime per trasmettere gli ordini in battaglia. O il terrore di finire in cielo smembrati dai 305, proiettili larghi come il volante di un’auto che si abbattono sulla testa dei fanti italiani. È la convivenza con la morte, che imbruttisce e non rende più uomini. Tante, infinite le testimonianze che ci arrivano dai diari di decine di scrittori di trincea. Anche il nostro Giuseppe rimane investito da tutto questo, a tal punto che uno dei suoi racconti pubblicati in rete ha un’etichetta (un “tag”) tristemente ricorrente: “orrori”.
“I colpi da ‘305’ si susseguivano ogni cinque minuti e ogni volta ci facevano gelare il sangue nelle vene. Da un momento all’altro ci vedevamo portati in aria col baracchino e tutto quanto. Una scheggia attraversò la parete e la cassetta e fu fermata dalle matasse di filo. Altre caddero lì vicino, contro i sassi. Un colpo scoppiò nel fiume buttandoci addosso i ciottoli come una tempesta”.
Un altro episodio: è l’alba del 27 ottobre 1918 ed è in corso la Battaglia di Vittorio Veneto. Il telegrafista Giuseppe Trentini, al seguito della brigata Livorno, ha appena attraversato il Piave all’altezza di Vidor, per inseguire l’esercito austriaco ormai in ritirata. “Ci alloggiammo in una ex chiesa che era servita ai nemici come comando di qualche brigata, e come infermeria. Entrammo con tutte le precauzioni perché il suolo era cosparso di bombe di ogni genere e non poche ve ne erano nascoste sotto i graticci e i calcinacci costituendo così un serio pericolo. Ma noi, pratici ormai della vita di guerra non toccammo niente e ci accontentammo di girare per visitare il posto e trovarci un angolo per riposare. Nella fuga gli Austriaci avevano portato via tutto ed i tabernacoli erano aperti e vuoti. Nel coro, dietro l’altare maggiore che serviva da infermeria trovammo bende e sangue in quantità. In un angolo vi era una scarpa che conteneva un piede tagliato di un ferito Austriaco (quello era il nda) ‘reparto chirurgia!’”.

IL DIARIO, I RICORDI – Che importanza hanno queste testimonianze, oggi? Erminia Trentini è una signora che abita a Milano e ogni tanto arriva sul lago, a Leggiuno, dove ha la casa di famiglia. E’ il posto dove soggiorna la sorella, Brunangela. Erminia e Brunangela sono le figlie di Giuseppe Trentini. Dopo la guerra Giuseppe sposò Anita Petoletti, nel 1940: da allora ebbe sempre un rapporto particolare col lago e la sua tranquillità.
Si portava la guerra dentro – racconta Erminia – e qualche volta tentava di raccontarcela, ma per noi figlie quei ricordi erano qualcosa di estraneo ed incomprensibile per via della nostra giovane età. L’unico con cui riusciva a parlare di quanto vissuto era suo zio, anche lui un reduce. Andammo anche in una sorta di pellegrinaggio di guerra, nei luoghi dei combattimenti, ma non fu un’esperienza positiva per noi. Allora non potevamo capire. “
Ma in solaio c’erano quegli scritti, nella bella grafia di una volta, ad aspettarle.
“Mi ero ripromessa di leggerlo e di trascriverne i contenuti per i 18 anni di mio nipote Marco, ma mi fermavo sempre a pagina 10: non trovavo la forza di andare avanti”. Così, nel 1987, la decisione di spedire copia dell’originale del diario all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve di Santo Stefano, in provincia di Arezzo che ha reso pubbliche alcune parti dell’intero diario attualmente consultabili on line – “Conclude Erminia – . Oggi ho ripreso la trascrizione del diario, sono a buon punto, ho quasi terminato il lavoro, 180 pagine in totale. Alla fine lo consegnerò ai miei nipoti, un omaggio alla memoria della nostra famiglia: l’originale lo conserva mia sorella. Mio marito, che si diletta di teatro, ha in mente di portare queste testimonianze sul palcoscenico”.

Varesenews ha avuto l’onore di leggere brani inediti del diario, e ricostruire la storia di Giuseppe. E da qui, con queste parole, ci si congeda da questa storia:

“Ora che è finita e che sono uscito incolume sono contento di esserci stato e se anche ho sofferto molto e non ho mai avuto una soddisfazione anche piccola: non importa. Acqua passata non macina più e speriamo che mai simile acqua abbia di nuovo a far muovere un così terribile mulino”.
Milano, 1921

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Ringrazio: la famiglia Trentini, in particolare la signora Erminia per la pazienza e il tempo che mi ha dedicato; Nicola Maranesi dell’Archivio dei diari per la gentilezza; il collega Pier Vittorio Buffa per l’imbeccata. (ac)

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