“La notte dell’evasione ci sentì mezzo carcere”

Le sconvolgenti affermazioni dei detenuti interrogati durante l'inchiesta sui Miogni. I cinque arrestati saranno sentiti giovedì mattina, alcuni avvocati hanno visto l'ordinanza e negano la colpevolezza

Nuovi particolari sull’indagine che ha portato all’arresto di 5 guardie carcerarie. Tra gli agenti e i detenuti coinvolti nell’evasione, secondo i magistrati, erano nato un rapporto di promiscuità e complicità che ha reso possibile la fuga: c’era confidenza indebita e gli agenti si sono lasciati andare a comportamenti allarmanti. Dall’ordinanza di custodia cautelare del gip Anna Giorgetti, visionata in queste ore dagli avvocati difensori, emerge in tutta la sua crudezza la gravità delle situazione. Giovedì mattina gli arrestati saranno tutti interrogati a Milano, Bergamo, Como e Pavia. Iniziano però i primi distinguo. L’avvocato Alberto Zanzi, ad esempio, sulla base delle carte che vi illustreremo tra poco, ritiene che il suo cliente, Carmine Petricone, sia estraneo ai fatti.

I VERBALI
Le accuse tuttavia sono solide. Che la fuga dei tre romeni sia stata agevolata dai 5 agenti arrestati è noto, ma a sentire i due complici di Victor Miclea, ritenuto la mente del piano, quella notte in carcere accadde davvero qualcosa di grave.

Ecco cosa c’è scritto nell’ordinanza. «La sera dell’evasione non è passato nessuno, potevamo buttare giù un muro e nessuno se ne sarebbe accorto» afferma in un passaggio di interrogatorio uno dei due. E ancora: «Il rumore – racconta – si sentiva forte. E vi assicuro che mezzo carcere ha sentito il rumore che abbiamo fatto. A fianco della nostra cella c’era il club dove gli agenti guardano la partita e per forza dovevano ascoltare il rumore che abbiamo fatto, la finestra del locale era sempre aperta perché rotta…abbiamo iniziato a tagliare alle 17 e abbiamo continuato per tre ore».

IL BOSS
Gli evasi Daniel Parpalia e Marius Bunoro hanno chiarito molte cose. Victor Miclea era uno sfruttatore di prostitute che venivano fornite anche agli agenti ed era diventato un tipo  importante nella prigione: «Miclea diceva che aveva dato a un agente 400 euro per far entrare un telefono – racconta uno dei fuggiaschi – e che lui poteva fare quello che voleva, perché in carcere a Varese entra qualsiasi cosa».

La corruzione sarebbe stata pagata con sesso, soldi e la promessa di dare una lezione al comandante e al vicecomandante della penitenziaria. Un testimone racconta: «Miclea mi disse che i seghetti li avrebbe comprati la fidanzata di un suo compagno di cella e li avrebbe consegnati al suo amico, agente della cucina, il quale li avrebbe fatti pervenire a lui». E ancora: «Il Miclea per le sue esigenze di telefono si avvaleva dell’aiuto di un capoposto, che ogni tanto gli forniva un telefono cellulare durante i suoi giri di sezione. Il capoposto gli dava il telefonino per il tempo strettamente necessario, solitamente durante il giro della conta delle quattro del pomeriggio, e poi se lo riprendeva al termine del giro».

La sua capacità di movimento era tale, che Miclea poteva anche inviare una complice sul palazzo che si trova davanti al carcere e in una telefonata farsi spiegare i percorsi da seguire: «Quando ci siamo sentiti per telefono – confessa – io ero nel palazzo adiacente al carcere. Mi chiedeva delle conferme sui muri, sul parcheggio. Mi chiedeva specificamente dove fanno in passeggi…mi ha fatto delle domande per vedere se le strutture del carcere erano come pensava lui».
L’indagine del pm Annalisa Palomba non è chiusa, si devono accertare anche altre posizioni.

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Pubblicato il 10 Dicembre 2014
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