“Oggi mia figlia può dire che papà è in Italia a lavorare”

La storia di Arian che da più di due anni sconta una pena nel carcere di Busto. «Lavoro di giorno in un asilo e nei weekend posso uscire in permesso e incontrare la mia famiglia»

La felicità negli occhi di Arian si legge subito: sono le 11 di sabato mattina e fra due ore vedrà la mamma, la sorella e la nipotina. Arian ha 30 anni, è nato a Düsseldorf da padre macedone e madre tedesca e li si è laureato in Economia (nella foto in occasione di una visita al sindaco Farioli per Natale). Lo incontriamo a Busto Arsizio in Casa Onesimo, la struttura fondata cinque anni fa da Don Silvano, cappellano del carcere di Busto, e dall’Associazione VolGiTer. Ed è proprio nell’istituto bustocco che Arian vive da più di due anni. Da qualche tempo però, una volta concluso definitivamente l’iter processuale, gode della possibilità di uscire in permesso. «Se non era per Casa Onesimo – racconta – per uno come me sarebbe stato impossibile essere qui adesso». Arian infatti, così come la metà circa delle persone detenute a Busto, è straniero e non ha familiari in Italia che lo possano accogliere durante i permessi premio. La struttura di via Lega Lombarda – vicino alla parrocchia di Santa Croce, a fianco del centro dei missionari Pime – è nata proprio per accogliere queste persone e dare anche loro l’occasione di usufruire dei “premi” previsti per legge. «Qui c’è posto per tre detenuti in permesso, le altre stanze sono occupate da persone in asilo politico – ci spiega Arian -. Ogni tre mesi Sabrina Gaiera, agente di rete che lavora nel carcere, riunisce tutti noi che abbiamo avuto il via libero del magistrato di sorveglianza e mettiamo giù insieme un piano per tutti i fine settimana». L’accoglienza dei "permessanti" e di ex detenuti in Casa Onesimo è uno de punti fondanti del progetto "Non solo accoglienza" partito a maggio.
Una o due volte al mese Arian riesce così a passare un weekend fuori dal carcere. Arriva a Casa Onesimo il venerdì sera e riparte la domenica. «Si possono fare molte cose che in carcere non sono possibili: puoi decidere se passare la giornata qui, stare con gli educatori o girare per la città. Ma per me la cosa più importante è un’altra: qui la mia famiglia può venire a trovarmi e possiamo stare insieme liberamente». È questo che rende davvero felice Arian: sapere che la maggiore dei suoi tre figli – di dieci anni, ci sono poi un bambino di sei e la piccola di quattro – che ormai è in grado di capire la situazione, non lo debba più incontrare in carcere per non più di due ore. «Loro e mia moglie prendono una stanza in un albergo qui vicino e così possiamo passare due giorni insieme. Finalmente la mia bambina può tornare a scuola e dire ai compagni che il papà è in Italia a lavorare».
Arian infatti è l’unico degli oltre quattrocento detenuti nella Casa Circondariale di Busto che gode dell’articolo 21, quello che garantisce la semilibertà: fuori di giorno e dentro di notte. «Il mio avvocato mi ha trovato un contratto fisso in un micronido privato di Olgiate Olona. Vado tutti i giorni dalle 12.30 alle 18.30 per fare le pulizie. Devo davvero ringraziare tutti quelli che l’hanno reso possibile: il mio difensore, l’area educativa guidata da Rita Gaeta, il magistrato di sorveglianza, Sabrina Gaiera, gli agenti e i responsabili dell’asilo. Tutti possono sbagliare, ma se gli altri vedono che hai voglia di fare e di impegnarti sono disposti ad aiutarti». E di certo la voglia di fare ad Arian non è mai mancata. Appena arrivato nel carcere di Busto, ha voluto imparare la lingua italiana frequentando il corso di alfabetizzazione della volontaria Carla Bottelli. Poi si è iscritto ai laboratori di pittura, ceramica e teatro. «Ho anche lavorato come portapacchi. È un lavoro delicato che richiede molta fiducia da parte dell’amministrazione e degli agenti. I pacchi infatti sono quelli portati dai familiari ai detenuti e c’è la questione della sicurezza».
Per Arian adesso si apre una nuova occasione. «Ho chiesto e finalmente ottenuto il trasferimento in un carcere tedesco per scontare là la pena in base al Trattato di Strasburgo. Devo ammettere che sono un po’ deluso dai tempi della burocrazia: non mi sembra giusto che un cittadino comunitario impieghi due anni per poter essere rimpatriato e poter scontare la pena nel proprio paese. Fortunatamente stanno pensando di cambiare procedura». La data del “viaggio” non è ancora nota e Arian la conoscerà solo pochi giorni prima della partenza. Per ora quindi si concentra sul suo nuovo lavoro. Ogni giorno alle 12.30 sale in sella alla bici che gli hanno fatto avere i familiari e va verso Olgiate in attesa di un altro weekend e di una visita dei familiari. «Il lavoro è la cosa più importante per chi sta in carcere. Quando lavori ti senti libero e non più chiuso fra quattro mura».

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Pubblicato il 16 Giugno 2010
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